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15/11/2013

In fondo al tunnel si vede la crisi

L'economia, questa sconosciuta. Il governo Letta – come fa ogni governo da quando esiste il mondo – dice di vedere “la luce in fondo al tunnel” (aveva cominciato la litania di fine anno, da quando è iniziata questa crisi, l'ormai dimenticato Giulio Tremonti). A prescindere dai dati reali.

E quando i dati reali arrivano, ci si attacca alle virgole o alle sfumature per asserire che le cose stanno diversamente da come sono.

Prendiamo il rapporto Istat di oggi. Anche nel terzo trimestre del 2013 il Pil è diminuito: dello 0,1% rispetto al trimestre precedente, dell'1,9% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Che c'è da festeggiare? Ok, una cosa da nulla... Si aspettavano un calo dello 0,2%, quindi sono contenti perché è andata meno peggio del previsto.

Ecco, siamo in mano a dei pazzi scriteriati capaci di dire che “la situazione va migliorando” mentre le cose vanno sempre peggio. Anche se a velocità momentaneamente più bassa.

Per farci capire facciamo un esempio. Tutti i media di regime sventolano questo grafico per far vedere come la “crescita” stia per affacciarsi:

Come si vede, quelle colonnine rosse sotto la linea che segna lo zero sono continue, dal terzo trimestre 2011 a oggi. Cosa fanno i “segnalatori di luce in fondo al tunnel”? Enfatizzano la riduzione di dimensione della colonna negativa (in effetti sempre più piccola negli ultimi quattro trimestri) per “vedere” un ritorno della colonnina sopra lo zero a breve termine. Se non nel quarto trimestre di quest'anno, almeno nel primo del prossimo.

Come vanno invece letti questi numeri? Nell'unico modo statisticamente sensato: quelle colonnine negative continue segnalano un cumulo di segni meno. Quindi, dopo 9 trimestri negativi, dobbiamo fare la somma: -5%, frazione più o frazione meno (le variazioni percentuali, trimestre su trimestre, si riferiscono a cifre assolute variabili, ma in diminuzione costante). Dunque, se anche il prossimo trimestre facesse segnare un ottimistico +0,2, ci troveremmo comunque in una situazione in cui – rispetto a due anni e mezzo fa – avremmo perso “quasi” il 5%. Se poi, com'è giusto, facciamo i conti con l'ultimo quinquennio, da quando cioè la crisi si è fatta misurare anche in termini di Pil, troviamo che la perdita è superiore al 10%. Insomma: in soli cinque anni la capacità produttiva del paese, in senso lato, è diminuita di quasi 160 miliardi l'anno (allora il Pil annuo oscillava sui 1.600 miliardi). E anche in questo caso dovremmo sommare in cifra assoluta per perdite anno dopo anno...

Per “recuperare” il gap dovremmo correre ad una velocità superiore al 2% annuo per ritrovarci, tra cinque anni, al punto di partenza (seconda metà del 2008). Ma nemmeno gli “ottimisti” di mestiere arrivano a ipotizzare cifre simili...

Che c'è da festeggiare?

Giustamente, un vecchio saggio come Luciano Gallino li svillaneggia in questa intervista su l'Huffington Post...

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Intervista a Luciano Gallino: "Enrico Letta fa black humor. Senza lavoro, come si fa a parlare di ripresa imminente?"
Giulia Belardelli
"Ci vuole una bella dose di umorismo nero per parlare, oggi, di una ripresa imminente". Non ha dubbi Luciano Gallino, sociologo e massimo esperto italiano del mercato del lavoro. Il guaio è se a fare del "black humor" è il primo ministro di un Paese, in questo caso il nostro. Come si fa - si domanda Gallino - a parlare di ripresa con la disoccupazione a livelli record e in assenza totale di politiche per l'occupazione?

Oggi il presidente Letta, parlando al consiglio nazionale del Coni, ha detto che “la ripresa è a portata di mano”, anche se non si vede. È davvero così?

Ci vuole una bella dose di ottimismo per fare un’affermazione del genere. I rapporti e gli studi che si possono leggere a livello internazionale dicono ben altro. È quanto meno paradossale che si parli di sintomi di ripresa con la disoccupazione in aumento. È come se ci si dimenticasse che il parametro più significativo per valutare lo stato di salute di un’economia è il tasso di occupazione. Detto sinceramente, per parlare ora di ripresa ci vuole una bella dose di umorismo nero.

Dagli Stati Uniti all’Europa, in molti prevedono una jobless recovery, ossia una ripresa senza lavoro. Secondo lei, è un ossimoro? Oppure è davvero possibile una ripresa senza lavoro?

Se l’occupazione non cresce, l’economia reale non può che risentirne. Chi parla di ripresa asseconda le teorie economiche neoliberali che hanno conquistato il discorso mediatico. Si guarda solo ed esclusivamente al Pil, e non al modo in cui è prodotto. E il Pil può crescere di qualche punto perché sono ripartite le attività finanziarie. Ma che ripresa è questa?

Quale cambio di passo dovrebbe esserci, in Europa, per invertire la rotta?

In Europa non si è intrapresa nessuna seria riforma che possa favorire l’occupazione: l’economia reale non è sostenuta, punto. Negli Stati Uniti si è fatto di più. L’Europa, con le sue politiche di austerità, non sta facendo altro che favorire la disoccupazione. Ignorando un altro aspetto fondamentale: la povertà. Ci sono, a cominciare dall’Italia, milioni di precari che guadagnano pochi euro all’anno e vivono nella disperata attesa del rinnovo di un contratto. Secondo Eurostat, ci sono in Europa più di 120 milioni di persone a rischio povertà. Si tratta di un quarto della popolazione europea. Sono questi gli indicatori che bisogna tenere a mente quando si parla. Perché le luci che si scorgono in fondo al tunnel possono anche essere i fari di un tir che arriva a tutta velocità dalla direzione opposta.

Cosa dovrebbero fare, dunque, l’Europa e i singoli paesi?

Il bello è che potrebbe fare molte cose. Ad esempio, l’Ue potrebbe varare un grande progetto per l’occupazione. Ma non spingiamoci troppo in là: basterebbe semplicemente richiedere un maggiore rispetto degli stessi trattati europei. L’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, ad esempio, è pura follia dal punto di vista della politica economica.

L’Europa ce l’ha chiesto e noi l’abbiamo fatto, si dice…

Sarebbe bastato leggere con attenzione i trattati per capire che si poteva scegliere una legge ordinaria. In tutta la loro storia gli Stati Uniti avranno rispettato il pareggio di bilancio quattro o cinque volte. Vorrà pur dir qualcosa… Invece il Parlamento italiano ha liquidato la questione in un quarto d’ora. Alla pesca del pesce azzurro nel Mediterraneo si sarebbero dedicati più tempo ed energie.

Parlando della legge di Stabilità, ieri il viceministro all'Economia Stefano Fassina ha ammesso che una terapia shock per l'Italia è impossibile per via dei vincoli imposti dall'attuale politica economica della zona Euro. Anche nel governo, dunque, c'è chi si auspica una "correzione di rotta" della politica economica dell'Eurozona. Come commenta?
I nostri governanti (come quelli di altri paesi) appaiono totalmente succubi dei dettami di Bruxelles, questa è la verità. Mentre un grande Paese fondatore dovrebbe avere la forza e l'energia per chiedere - se necessario - una riforma dei trattati o quanto meno un'interpretazione meno passiva degli stessi. I nostri governi - sia quello attuale che quello precedente - non l'hanno fatto. Si sono comportanti come il militare di leva che batte i tacchi e obbedisce all'ordine.

Il suo ultimo libro si intitola Il colpo di Stato di banche e governi. Perché parla di colpo di Stato?

Dal 2010 in poi è intervenuto nei Paesi dell’Unione europea un paradosso: i milioni di vittime della crisi si sono visti richiedere perentoriamente dai loro governi di pagare i danni che essa ha provocato, dai quali proprio loro sono stati colpiti su larga scala. Il paradosso è che la crisi, fino all'inizio del 2010, è stata un crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l'idea che il problema fossero i debiti pubblici degli stati. Detta in parole semplici: i parlamenti hanno ceduto potere ai governi; i governi hanno ceduto alla Commissione europea e alla Bce; la Bce e la Commissione europea hanno assecondato Fmi e Banca Mondiale, e tutti insieme hanno ceduto alle grandi istituzioni finanziarie, che hanno bilanci superiori a quelli degli stati nazionali.

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