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13/11/2013

Colonie, il passo indietro di Bibi


Le critiche della comunità internazionale e le parole dure del segretario di Stato americano Kerry avrebbero avuto un primo concreto effetto: ieri il premier israeliano Netanyahu ha cancellato il piano di costruzione di 20mila nuove unità abitative per coloni in Cisgiordania. Sospesa anche l'implementazione del progetto E1, corridoio di colonie tra Gerusalemme e l'insediamento di Ma'ale Adumim.

L'ordine è stato inviato al ministro per l'Abitazione, Uri Ariel, membro di Casa Ebraica e colono: "Vanno riconsiderati tutti i passi per la valutazione dei progetti di costruzione", ha scritto Bibi che dice di vedere nell'espansione coloniale selvaggia che sta accompagnando l'attuale processo di pace "un confronto non necessario con la comunità internazionale nel periodo in cui siamo impegnati a persuaderla a trovare un migliore accordo con l'Iran".

La decisione giunge a pochi giorni dalla visita del segretario di Stato Kerry che, durante un incontro con il presidente palestinese Abbas a Betlemme, aveva ricordato la posizione statunitense in merito agli insediamenti israeliani nei Territori: "Le colonie sono illegali". Un mantra spesso ripetuto dalle diverse amministrazioni Usa e dall'Unione Europea a cui non seguono mai fatti concreti. Ma stavolta un'azione concreta è arrivata: non da parte della comunità internazionale, ma da parte dello stesso governo di destra israeliano. Il cui timore - con molta probabilità - non sono le critiche europee o statunitensi, né tantomeno l'andamento del negoziato con la controparte palestinese. Bibi ha bisogno di riguadagnarsi credibilità agli occhi dell'Occidente, impegnato nelle ultime settimane in un'apertura storica verso Teheran: "Oggi, l'attenzione della comunità internazionale non deve essere allontanata dal nostro principale obiettivo: impedire all'Iran di raggiungere un accordo che gli permetta di proseguire con il programma nucleare".

Lo stesso ministro degli Esteri Lieberman, appena tornato ad occupare la poltrona della diplomazia israeliana, ha avuto parole di miele per l'alleato americano, sottolineando la necessità di non chiudere la porta in faccia ad un alleato di così vecchio corso. Da parte sua, la leadership palestinese si dice soddisfatta, dopo la minaccia di lasciare il tavolo del negoziato nel caso Israele avesse proseguito con i piani coloniali: "Ho informato Usa, Russia, Unione Europea, Nazioni Unite e Lega Araba che la colonizzazione significa la fine del negoziato e del processo di pace", ha detto il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat, minacciando Tel Aviv di riprendere in mano le richieste di adesione a organismi internazionali (Corte Penale Internazionale in testa).

Ramallah non ha compreso, però, che a convincere Bibi a congelare gli insediamenti (una decisione che non ha mai avuto bisogno di prendere negli ultimi tre anni) non è probabilmente stata la volontà di salvare il dialogo. È l'Iran. Il negoziato sul nucleare in corso tra Iran e 5+1 indebolisce Israele. Non per la minaccia atomica. Ma per l'utilizzo che ogni governo israeliano ha fatto e farà del fantasma iraniano: una minaccia alla sicurezza interna che necessita di interventi concreti, milioni di dollari di finanziamenti e budget destinato alla difesa. Oltre, naturalmente, al chiaro utilizzo propagandistico all'interno della società israeliana, culturalmente, socialmente ed economicamente frammentata ma con un collante d'acciaio: il nemico esterno.

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