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28/10/2013

Palestina, una leadership in crisi

Le parole di mercoledì del presidente Mahmoud Abbas sono la chiara espressione della distanza sempre più ampia tra la leadership palestinese e il suo popolo. Da Bruxelles, dove ha incontrato il presidente del Consiglio Europeo Van Rompuy, Abbas ha fatto appello alle compagnie europee e straniere perché mettano fine "ai rapporti commerciali con le colonie israeliane, attività che violano il diritto internazionale".

Per poi aggiungere: «Non si tratta di un passo contro Israele, ma contro gli insediamenti israeliani nei Territori Occupati». Le parole di Abbas sono cristalline: la leadership palestinese ha rinunciato alla Palestina storica e ha accettato definitivamente la soluzione a due Stati, con la creazione di uno Stato palestinese sovrano e indipendente in Cisgiordania e Gerusalemme Est, meno del 20% della Palestina storica.

Sebbene da tempo anche ex sostenitori della soluzione a due Stati - uno israeliano e uno palestinese - abbiano dismesso tale opzione, ritenendola meno realistica della creazione di uno Stato unico democratico per i due popoli, Ramallah prosegue spedita, non tenendo conto della contrarietà del popolo palestinese. I palestinesi lo sanno: accettare uno Stato su uno spicchio di territorio, significa rinunciare per sempre al diritto al ritorno dei rifugiati e alla possibilità di tornare nelle proprie terre e in città simbolo del sogno palestinese, Gerusalemme, Akka, Haifa.

Nella realtà dei fatti, lo stesso Israele si dimostra contrario a tale opzione: la colonizzazione israeliana in corso (dall'inizio del 2013, l'espansione coloniale in Cisgiordania è aumentata del 70%) non è certo il miglior punto di partenza per la creazione di uno Stato palestinese indipendente e continuo. Lo stesso Netanyahu, premendo sulla necessità di mantenere un controllo militare sulla Valle del Giordano anche dopo la nascita di uno Stato di Palestina, non fa che calpestare la credibilità di una soluzione a due Stati.

Eppure Fatah, fazione di governo in Cisgiordania, cammina ormai sicura sulla via tracciata dagli Stati Uniti. Dall'altra parte sta Hamas, in piena crisi dopo la caduta del regime dei Fratelli Musulmani in Egitto, tanto da tentare un riavvicinamento con la fazione avversa. Durante la festa musulmana del Sacrificio, la scorsa settimana, i leader di Fatah e Hamas si sono sentiti al telefono, tornando di nuovo a dichiarare la necessità di un processo di unità nazionale. Processo ormai "in piedi" da due anni, ma mai realizzatosi. Gli accordi de Il Cairo e di Doha del 2011 e 2012, che avrebbero dovuto portare ad un governo ad interim e nuove elezioni a Gaza e in Cisgiordania, sono rimasti lettera morta.

Il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, dalla Turchia ha fatto appello all'Autorità Palestinese: sedersi allo stesso tavolo per tracciare una strategia comune contro Israele, per la difesa di Gerusalemme. «Proteggere Gerusalemme e la Moschea di Al Aqsa dalla giudaizzazione, la demolizione e la divisione dovrebbero essere un obiettivo nazionale comune - ha detto Meshaal - Vogliamo ricordare a noi, alle future generazioni e al mondo che Gerusalemme è l'essenza della causa e del conflitto, un simbolo politico, religioso, nazionale e storico».

Fatah pochi giorni prima aveva teso la mano all'avversario: uno dei leader del partito, Jibril Rajoub, aveva affermato l'intenzione di avviare il dialogo con il movimento islamista, organizzare nuove elezioni e formare un governo di unità nazionale. Già, le elezioni: le ultime, tenutesi nel 2006, avevano visto la vittoria di Hamas nei Territori e la seguente spaccatura in due enclavi, ognuna governata da una fazione. Fatah in Cisgiordania, Hamas a Gaza. Un nuovo voto avrebbe dovuto tenersi cinque anni dopo, nel 2011, ma è stato costantemente rimandato per la mancanza di un accordo tra i due partiti, il cui solo interesse al momento appare quello di consolidare il loro potere su uno spicchio di territorio, lasciando in un angolo le reali necessità e le aspirazioni del popolo palestinese.

La leadership palestinese è ormai impantanata in una crisi cronica, priva del consenso della popolazione e arroccata su posizioni che sembrano una mera protezione di interessi politici. Manca una strategia di lungo periodo e uomini forti in grado di ottenere la fiducia del popolo palestinese. Insomma, manca l'OLP. Con la creazione dell'Autorità Palestinese a seguito degli Accordi di Oslo nel 1993, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina non appare più in grado di vestire i panni del rappresentante di tutti i palestinesi, in Palestina e nel mondo.

Ne abbiamo parlato con Thayer Hastings, ricercatore palestinese dell'associazione BADIL, impegnata nella tutela del diritto al ritorno dei rifugiati e dei diritti di residenza palestinesi.

"Il problema della rappresentanza del popolo palestinese è una questione urgente che richiama l'attenzione dell'opinione pubblica palestinese. Nell'era post Oslo, nei dibattiti ritornano sempre la divisione tra Hamas e Fatah, le elezioni generali e l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). La ricostituzione dell'OLP nel 1968 e l'apertura alle varie fazioni, unioni e gruppi di guerriglia palestinesi gli fece guadagnare legittimità popolare. L'OLP, in teoria, è la 'sola ed unica rappresentanza legittima del popolo palestinese', riconosciuta a livello internazionale nel 1974; tale ruolo però viene sempre più soppiantato dall'Autorità Palestinese nelle questioni pratiche. Per questo, oggi le critiche mosse all'OLP vertono sulla sua non-rappresentanza dell'attuale realtà politica".

"Con l'inizio del processo di pace di Oslo e la nascita dell'Autorità Palestinese - continua Hastings - è divenuto chiaro che l'ANP non ha una chiara visione per una strategia di liberazione, oltre a rappresentare a livello amministrativo solo una parte della popolazione palestinese: quella residente in Cisgiordania. La situazione è peggiorata con il riconoscimento da parte dell'Onu dell'ANP come Stato non membro, un ulteriore passo nel confondere le competenze di rappresentanza tra l'Autorità Palestinese e l'OLP. Così la gran parte dei palestinesi nel mondo, i palestinesi della diaspora, si trovano senza una rappresentanza: in Israele continuano ad essere cittadini di serie B, in Giordania rischiano di vedersi revocare la cittadinanza, in Libano vedono i loro diritti fondamentali negati, mentre in Siria vivono nella minaccia di una seconda evacuazione".

Da qui è nata l'idea di ricreare un soggetto che rappresenti realmente il popolo palestinese: la società civile ha avviato una raccolta firme per la registrazione degli elettori di un futuro Consiglio Nazionale Palestinese, con l'attuale bloccato dalla divisione tra Hamas e Fatah. Karma Nablusi, ex dirigente dell'OLP, parlando ad una tavola rotonda qualche mese fa ha trattato la questione con chiarezza: "L'obiettivo di organizzare democraticamente le nostre istituzioni è più profondo della mera creazione di un governo o uno Stato: determinare insieme e per noi stessi, collettivamente, la nostra strategia di liberazione e ritorno". Non sono pochi gli esperti e gli osservatori che ritengono che la realtà pseudo-statale dell'ANP sia il risultato della fallimento irrimediabile dell'OLP. Uno degli argomenti contro l'OLP è che a partire dal 1968 ha sempre giustificato le predominanza a tratti illegittima di Fatah e allo stesso tempo ha marginalizzato altre ideologie".

Proprio la radicata appartenenza politica ad una fazione piuttosto che un'altra, però, potrebbe essere l'ostacolo ad una riforma profonda dell'OLP o ad una sua sostituzione con una nuova realtà: "I membri del Consiglio Nazionale Palestinese sono scelti tra i partiti che costituiscono l'OLP - conclude Hastings - Sarebbe davvero possibile che i legami dei membri alle fazioni di appartenenza non vadano ad incidere sulla loro capacità di restare indipendenti? Cambiare l'aspetto e il nome dell'organizzazione rappresentativa è sufficiente per rendere gli individui che la compongono maggiormente democratici? Riflettere sul ruolo dell'OLP è sicuramente un passo necessario, ma senza dimenticare il contesto attuale: il movimento di liberazione nazionale è in stallo, mentre il popolo palestinese continua a subire quotidianamente vessazioni e soprusi. Mettere mano alla riforma dell'OLP senza una strategia politica di lungo periodo, rischia solo di rafforzare un'Autorità Palestinese non democratica, non liberale e non rappresentativa".

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