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18/08/2013

“New economy”, così la bolla italiana del digitale è finita in mutande

Negli anni ‘90 i marchi come Tiscali e Kataweb volavano in Borsa. Oggi sono quasi tutti falliti. Ma i loro inventori sono stra-ricchi, grazie a un gigantesco passaggio di denaro - miliardi di euro - dalle tasche di molti a quelle di pochi.

La storia esemplare è quella di Silvio Scaglia. Il 55enne imprenditore di Novara poche settimane fa ha investito 69 milioni, piccola parte del denaro accumulato grazie alla famosa “new economy”, nell’acquisto di La Perla, nota azienda bolognese dell’abbigliamento intimo femminile. Nei suoi progetti c’è una forte sinergia con la Elite Model World, agenzia di moda comprata tre anni fa, per costituire un polo mondiale del lusso. Proprio perché la bellezza femminile rimane un valore, anche di mercato, del tutto analogico, la mossa di Scaglia illumina una tendenza dell’imprenditoria italiana. Negli anni del primo boom internettiano (1998-2001) l’Italia credeva di poter ancora salire sul rutilante treno dell’innovazione digitale: la new economy appariva (o più propriamente veniva presentata) come un campo di gioco in cui tutti partivano da zero e dove le imprese tricolori non avrebbero pagato dazio al declino del sistema industriale nazionale.

La Fiat, alla vigilia del collasso, affidava al giovane nipote dell’Avvocato, John Elkann, l’avventura digitale del portale Ciao-web, con poderosi investimenti. Carlo DeBenedetti, che si era appena lasciato alle spalle la letterale distruzione dell’Olivetti, giocava le sue carte sul giovane Paolo Dal Pino, capo del portale Kataweb. La Telecom, appena scalata dalla “razza padana” di Roberto Colaninno, cavalcava la bolla del web attribuendo valori fantasiosi alla sua Tin.it. Poi c’erano i nuovi protagonisti: Renato Soru con la sua Tiscali, Paolo Ainio e Carlo Gualandri con Matrix, mamma del portale Virgilio, e Scaglia, appunto, con E.Biscom, progenitrice di Fastweb.

Bolle e fallimenti
Trascorso un decennio, si può abbozzare un bilancio: la new economy italiana si è risolta in una collana di fallimenti, e mentre nel mondo si sono consolidate realtà immense (sia pure tra perduranti incognite) come Google o Facebook, gli imprenditori italiani che in quegli anni hanno fatto più soldi si sono convertiti alla restaurazione analogica. Attenzione, però: non tutti. Imprenditori e manager “nativi digitali”, forse perché sapevano fare solo quello, hanno continuato sulla loro strada. Venduta Matrix a Telecom Italia per una cifra nell’ordine dei miliardi di euro, Ainio ha fondato Banzai, gruppo poliedrico e molto attivo nell’editoria online (da Liquida a Il Post di Luca Sofri). Gualandri, insieme a un altro pioniere di Matrix, Fausto Gimondi, ha costituito GiocoDigitale, che fa business sui giochi online. Andrea Granelli, che ha guidato lo sviluppo internet del gruppo Telecom negli anni del boom, ha una affermata società di consulenza per l’innovazione, la Kanso.

Un caso controverso è quello di Renato Soru. All’inizio Tiscali fu un’operazione geniale: è stato il primo a offrire l’accesso gratuito a Internet, quando ci si collegava con la telefonata urbana, e Soru seppe sfruttare la regola che gli dava diritto alla retrocessione da parte di Telecom di una parte della tariffa quando la chiamata era diretta ai suoi nodi di connessione alla rete. Nell’euforia della bolla, quando Tiscali fu quotata in Borsa, il 27 settembre 1999, le azioni andarono a ruba. In pochi mesi dal prezzo di collocamento di 46 euro arrivarono a 1.200 euro. Tiscali nella primavera valeva in Borsa più della Fiat e aveva 3.500 dipendenti, e tutto era basato sulle mitiche “prospettive”.

Esplosa la bolla, la società di Cagliari ha cominciato a declinare, non ha mai fatto un centesimo di utile in 15 anni e ha un quarto dei dipendenti di allora. Nel 2004 Soru ha ceduto alla più analogica delle lusinghe, la carriera politica. È stato eletto governatore della Sardegna e per cinque anni non si è più occupato di Tiscali, ufficialmente, come Berlusconi con Mediaset. Nel 2009 è stato battuto alle elezioni da Ugo Cappellacci ed è tornato al capezzale di Tiscali, che resta faticosamente in vita. Non è ancora chiaro se Soru correrà per le regionali sarde del 2014, il personaggio rimane sospeso tra i cieli digitali e l’analogica terra politica, “nativo digitale” anomalo, figlio di una cultura commerciale più che tecnologica.

Gli altri grandi eroi della “new economy” si rivelarono subito più abili speculatori che arditi costruttori di futuro. Roberto Colaninno era un manager stipendiato da Carlo De Benedetti, che gli affidò l’Olivetti morente. Prima la rianimò buttandola sulle telecomunicazioni, con Infostrada e Omnitel, poi la usò per scalare Telecom Italia a debito (subito scaricato sulla stessa Telecom), e con Lorenzo Pellicioli del gruppo De Agostini orchestrò la famosa operazione Seat-Tin.it. La Seat, venduta pochi anni prima da Telecom, faceva le Pagine Gialle che erano negli anni 90 una macchina da soldi. Con l’idea che grazie al web gli elenchi telefonici sarebbero diventati un potentissimo motore per il commercio elettronico, Seat era arrivata a valere 20 miliardi di euro.

Nel febbraio 2000 (tutto allora accadde in pochi mesi) fu annunciata la fusione tra Seat e Tin.it, la società Telecom che dava l’accesso alla rete. Tin.it valeva pochi milioni di euro e non era quotata, ma, siccome gli accordi prevedevano che la nuova società sarebbe stata controllata da Telecom, bisognava fare la fusione alla pari. E una perizia della Ernst&Young stabilì che Tin.it   (fatturato 1999 di circa 75 milioni di euro) valeva, appunto, 20 miliardi di euro, in forza della “prospettive”. Insomma, Seat-Tin.it era valutata più di Yahoo!, e il Wall Street Journal commentò così: “Questa stima ha lo stesso senso di credere che si possa far nascere un dinosauro prendendo il Dna di una zanzara intrappolata nell’ambra”.

Nell’euforia le azioni Telecom arrivarono a valere 20 euro. Le Seat superarono i 7 euro, un anno dopo erano già scese a uno, poi le Pagine gialle sono pressoché defunte e Tin.it fu rivenduta a Telecom per pagare i buchi fatti da La7, comprata in quei mesi da Colaninno e Pellicioli. Il risultato di quella storia è il seguente: Telecom è in ginocchio sotto il peso di 40 miliardi di debiti, Pellicioli è diventato personalmente ricchissimo e sta nel consiglio delle Generali (gigante delle assicurazioni analogiche), molti risparmiatori si sono rovinati e Colaninno in cinque anni si è trasformato da manager a uno degli imprenditori più ricchi d’Italia: si è arricchito più velocemente di Bill Gates.

Un fiume di soldi e di errori
Durante la bolla della new economy sono accadute cose interessanti sul piano del progresso tecnologico, ma soprattutto è stato orchestrato un gigantesco passaggio di denaro – miliardi di euro – dalle tasche di molti a quelle di pochi. Ma quei soldi non sono andati a finanziare l’innovazione. Roberto Colaninno, che si autodefinì “ricchissimo” quando Telecom fu venduta alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera nel luglio del 2001, ha messo i suoi capitali nell’Immsi (immobili), nella Piaggio (veicoli a due e tre ruote) e nell’Alitalia da salvare.

Anche la parabola di John Elkann è interessante. Curò la nascita di Ciaoweb, il portale di casa Fiat, investendo centinaia di milioni di euro. Poi ne vendette una piccola quota alla Juventus (tutto in famiglia) per fare il prezzo: in base a quella transazione Ciaoweb venne valutato un miliardo di euro, e si preparava allo sbarco in Borsa. Ma era già l’estate del 2000, e l’attimo fuggente era fuggito. Il Nasdaq, la Borsa tecnologica di Wall Street, aveva cominciato a crollare a marzo 2000, la festa era finita, le tasche dei risparmiatori erano salve, Ciaoweb no. Tredici anni dopo Elkann punta al controllo della Rcs-Corriere della Sera con il 20 per cento delle azioni. È vero che il futuro dei giornali è sulla rete, ma il presente è ancora fatto di rotative, inchiostro e camioncini che viaggiano di notte con i pacchi dei giornali. Elkann è un altro folgorato sulla via dell’analogico, con la specialità di comandare con i soldi degli altri.

L’illusione di Kataweb
Lo stesso giochino lo tentò Paolo Dal Pino, il manager che guidava Kataweb, il portale del gruppo Espresso. L’operazione, affidata a due giornalisti lungimiranti come Vittorio Zambardino e Claudio Giua, era di qualità. Il portale di Repubblica andava forte, e si investiva moltissimo confidando nei futuri ricavi. Kataweb si dotò di un intero palazzo, con centro congressi multimediale al piano terra (oggi c’è un bel supermercato analogico). De Benedetti e Dal Pino convinsero Alessandro Profumo di Unicredit a comprare il 5 per cento di Kataweb per 305 miliardi di lire: come Elkann con la Juve, Dal Pino vedeva automaticamente fissato, dall’autorevole banca milanese, a 6mila miliardi di lire il valore della società. Sembrava che il portalone fosse destinato a diventare più importante del gruppo editoriale tradizionale. E qualcuno ha sospettato che la mancata quotazione in Borsa (altro pericolo scampato per i risparmiatori) non fosse dovuta solo al ritardo e all’esplosione della bolla, ma anche alla gelosia verso Dal Pino del grande capo del gruppo Espresso, l’amministratore delegato Marco Benedetto.

Dal Pino si è spostato poi alla Seat, nella Telecom di Tronchetti Provera, ed è lentamente tornato al mondo analogico. Oggi è capo della Pirelli in Sud America, si occupa di copertoni. De Benedetti, che nel frattempo aveva tirato su un bel po’ di miliardi portando in Borsa Cdb Webtech, ha investito su centrali termoelettriche e cliniche per anziani. Solo Benedetto, paradossalmente, si è convertito al digitale: andato in pensione ha rispolverato il vecchio mestiere di giornalista e ha fondato un giornale online, blitzquotidiano.it .

Fastweb boom
Ma la conversione analogica di Scaglia resta la più eclatante. Stava nel pacchetto di mischia di Omnitel in una squadra di grande avvenire: c’erano Francesco Caio, Vittorio Colao, Tommaso Pompei. Lasciò per andare a fare E.Biscom, con l’idea di usare le canaline dell’Aem, la municipalizzata elettrica milanese, per cablare la città con la fibra ottica. Lo aiutò il rapporto costruttivo con il city manager Stefano Parisi, che credeva talmente nell’operazione da sfidare prima le critiche di chi si chiedeva che cosa ci guadagnasse il Comune, e poi qualche voce malevola quando nel 2004 andò a fare l’amministratore delegato proprio di Fastweb.

E.Biscom fu quotata in Borsa nel marzo 2000, al picco della bolla internet, a 160 euro per azione, e portò in cassa 1,6 miliardi di euro. Il titolo volò fino a 240 euro in poche settimane, poi precipitò. Nel 2007 (ormai era Fastweb) Swisscom l’ha comprata lanciando un’offerta pubblica di acquisto a 47 euro. Scaglia diventa così uno degli uomini più ricchi d’Italia e lancia a Londra Babelgum, portale video di qualità che non è mai decollato ed è stato chiuso. Anche perché nel frattempo sul capo sono arrivate le disgrazie giudiziarie, con la truffa Iva che ha coinvolto Fastweb e Telecom Italia Sparkle. Quindi l’arresto, quasi un anno di custodia cautelare, le proteste d’innocenza e un lungo processo ancora in corso. Siamo fermi alle richieste dei pm: 7 anni di carcere per associazione a delinquere e altri reati. E infine La Perla. Intimo femminile e processo penale, tutto molto analogico. Sic transit gloria web.

Fonte

L'articolo è interessante perchè offre uno spaccato ben documentato del capitalismo digitale indigeno facendo capire in quali voragini siano finiti buona parte dei risparmi che gli italiani gettavano incautamente sul mercato borsistico all'indomani della sua deregolamentazione da parte del primo governo Prodi (mi pare).
Tuttavia lo scritto di Maletti è assolutamente fallace quando afferma quanto segue:

"la new economy italiana si è risolta in una collana di fallimenti, e mentre nel mondo si sono consolidate realtà immense (sia pure tra perduranti incognite) come Google o Facebook, gli imprenditori italiani che in quegli anni hanno fatto più soldi si sono convertiti alla restaurazione analogica"

Messa così pare che, al solito, l'occasione sia stata "persa" solo sul suolo italiano, quando invece la cosiddetta new economy ha mietuto vittime (tante) in tutto il mondo a partire dalla sua culla californiana, dove a fronte di un vivaio enorme di aziende del settore, hanno prosperato sulla morte altrui soltanto pochi monoliti come Google e Microsoft che hanno fatto ne più ne meno di quanto s'è visto a casa nostra: drenare risorse da un mercato incapace di capire che stava creando dei monopolisti che non avrebbero redistribuito nemmeno un decimo della ricchezza generata rispetto alle precedenti attività produttive "analogiche". Non a caso l'esplosione informatica negli USA non ha assolutamente arginato il declino industriale americano, con buona pace dei tecno entusiasti e dei detrattori a senso unico del "sistema Italia".

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