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22/08/2013

Dossier/ Uscire dall'euro, strategie e illusioni

Nella sinistra francese è in corso un ampio dibattito sulla questione dell'uscita dall'euro. Dibattito ospitato nelle pagine di Le Monde Diplomatique o in quelle, online, del giornale indipendente Mediapart.fr. Pubblichiamo qui le tre posizioni più evidenti: quella di Frederic Lordon - che apparirà sul prossimo numero del Le Monde diplo tradotto in italia dal Manifesto - favorevole all'uscita per creare "una moneta comune". La posizine, nettamente contraria, di Pierre Khalfa, militante altermondialista allineato alle posizioni del Front de gauche diretto da Jean Luc Melenchom. Infine, la posizione di Henri Wilno, economista del Npa, che contrario all'uscita dall'euro invita comunque a non banalizzarne gli argomenti.

UNA MONETA UNICA PER USCIRE DALL'EURO
di Frédéric Lordon*

Già oggi in Europa le stesse banconote non hanno più lo stesso valore che hanno in Grecia o in Germania. È cominciata forse l'esplosione della moneta unica? Di fronte a uno scenario di caos è possibile costruire un'uscita dall'euro concertata e ben organizzata

Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l'euro verrà modificato. Che passeremo dall'attuale euro austeritario a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Questo non succederà. Basta pensare all'assenza di qualsiasi leva politica nell'attuale immobilismo dell'unione monetaria europea per farsene una prima ragione. Ma questa impossibilità poggia soprattutto su un argomento molto più forte, che può essere espresso con un sillogismo.
Premessa maggiore: l'attuale euro è il risultato di una costruzione che, anche intenzionalmente, ha avuto come effetto quello di dare tutte le soddisfazioni possibili ai mercati dei capitali e strutturare la loro ingerenza sulle politiche economiche europee.
Premessa minore: qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell'euro è ipso facto un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo dell'elaborazione delle politiche pubbliche.
Ergo, conclusioni: 1) i mercati non lasceranno mai che si concepisca, sotto i loro occhi, un progetto la cui finalità evidente è quella di sottrarre loro il potere disciplinare; 2) appena un siffatto progetto cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato acuta che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa, e il solo esito possibile, a caldo, sarebbe il ritorno alle monete nazionali.

A quella sinistra «che ancora ci crede», non resta che scegliere tra l'impotenza indefinita... oppure l'avvento di quel che pretende di voler evitare (il ritorno alle monete nazionali), non appena il suo progetto di trasformazione dell'euro cominciasse a esser preso sul serio! Bisogna poi chiarire cosa intendiamo in questa sede per «la sinistra»: certamente non il Partito socialista (Ps) in Francia, che oramai con la sinistra intrattiene esclusivamente rapporti di inerzia nominale, né la massa indifferenziata degli europeisti, che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi. Ma un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera in un batter d'occhio. E così, la corsa alle ancore di salvezza è cominciata con la dolcezza di un risveglio in piena notte, in un miscuglio di leggero panico e totale impreparazione.

Contro la moneta unica
In verità, le scarne idee a cui l'europeismo aggrappa le sue ultime speranze sono diventate parole vuote: titoli di stato europeo (o eurobond), «governo economico», o ancora meglio il «balzo in avanti democratico» di François Hollande - Angela Merkel, sentiamo fin da qui l'inno alla gioia -, soluzioni deboli per un pensiero degno della corazzata Potëmkin che, non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente. Può darsi, d'altronde, che si tratti non tanto di comprendere quanto di ammettere. Ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea, che è stata una gigantesca operazione di sottrazione politica.

Ma cosa c'era da sottrarre esattamente? Né più né meno che la sovranità popolare. La sinistra di destra, diventata come per caso europeista forsennata, si riconosce, tra l'altro, per come le si drizzano i capelli in testa quando sente la parola sovranità, immediatamente ridotta a «ismo»: sovranismo. La cosa strana è che a questa «sinistra qua» non viene in mente neanche per un attimo che «sovranità», intesa innanzi tutto come sovranità del popolo, è semplicemente un altro termine per indicare la democrazia stessa. Non è che, dicendo «democrazia» queste persone hanno tutt'altra cosa in testa?
In una sorta di confessione involontaria, in ogni caso, il rifiuto della sovranità equivale a un rifiuto della democrazia in Europa. Il «ripiegamento nazionale» diventa allora lo spauracchio destinato a far dimenticare questa piccola mancanza. Si fa un gran clamore per un Front national al 25%, ma senza mai chiedersi se questa percentuale - che in effetti è allarmante! - non ha per caso qualcosa a che fare, addirittura molto a che fare, con la distruzione della sovranità, non intesa come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di determinare il loro destino.

Cosa resta infatti di questa capacità in una costruzione che ha scelto deliberatamente di neutralizzare, per via costituzionale, le politiche economiche - di bilancio e monetarie - sottomettendole a delle regole di condotta automatica iscritte nei trattati? I difensori del «sì» al Trattato costituzionale europeo (Tce) del 2005 avevano finto di non vedere che l'argomento principale del «no» risiedeva nella parte III, certo acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) e Nizza (2001), ma che ripeteva attraverso tutte queste conferme, lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche al criterio fondamentale della democrazia: l'esigenza di rimessa in gioco e di reversibilità permanenti.
Perché non c'è più niente da rimettere in gioco, neanche da rimettere in discussione, quando si è scelto di scrivere tutto e una volta per tutte in dei trattati inamovibili. Politica monetaria, uso dello strumento budgetario, livello di indebitamento pubblico, forme di finanziamento del deficit: tutte queste leve fondamentali sono state scolpite nel marmo.
Come si potrebbe discutere del livello di inflazione desiderato quando quest'ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe decidere una politica budgetaria quando il suo saldo strutturale è predeterminato («pareggio di bilancio») ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? Come decidere se ripudiare un debito quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali?
Lungi dal fornire la benché minima risposta a queste domande, anzi, con l'approvazione implicita che danno a questo stato di cose costituzionale, le trovate da concorso per le migliori invenzioni europeiste sono votate a passare sistematicamente accanto al nocciolo del problema.

La bolla di sapone
Ci si domanda così quale senso potrebbe avere l'idea di «governo economico» dell'eurozona, questa bolla di sapone, che il Ps propone, quando non c'è proprio più niente da governare, dal momento che tutta la materia governabile è stata sottratta a qualsiasi processo decisionale per essere blindata in dei trattati.
(...)
Come semplice esercizio intellettuale, ammettiamo pure l'ipotesi di una democrazia federale europea in piena regola, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, ovviamente bicamerale, dotato di tutte le sue prerogative, eletto a suffragio universale, come l'esecutivo europeo (di cui comunque non si prevede quale forma potrebbe prendere). La domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano così di «cambiare l'Europa per superare la crisi» sarebbe la seguente: riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio?
Dato il carattere generale dell'argomento, aggiungeremo che la risposta - ovviamente negativa - sarebbe la stessa, in questo caso lo speriamo!, se questa stessa legge della maggioranza europea imponesse alla Francia la privatizzazione integrale della Sicurezza sociale. A proposito, chissà come avrebbero reagito gli altri paesi se la Francia avesse imposto all'Europa la propria forma di protezione sociale, come la Germania ha fatto con l'ordine monetario, e se, come quest'ultima, ne avesse fatto una condizione imprescindibile...

Bisognerà dunque che gli architetti del federalismo finiscano per accorgersi che le istituzioni formali della democrazia non esauriscono affatto il concetto, e che non c'è democrazia vivente, né possibile, senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far acconsentire le minoranze alla legge della maggioranza; poiché in fin dei conti, la democrazia è questo: la deliberazione più la legge della maggioranza. Ma questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari - o gli economisti - sprovvisti di qualsiasi cultura politica, e che però formano l'essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale ci porta regolarmente ad avere questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, e il «balzo in avanti democratico» si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale.

Il controllo dei capitali
Una volta ricordato che il ritorno alle monete nazionali permetterebbe di soddisfare questa condizione, ed è tecnicamente praticabile, basta che sia accompagnato da alcune semplici misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali) e saremo in grado di non abbandonare completamente l'idea di fare qualcosa in Europa.
Non una moneta unica, poiché questa presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori dalla nostra portata. Ma una moneta comune, questo sarebbe fattibile! Tanto più che gli argomenti validi a sostegno di una forma di europeizzazione restano, a patto ovviamente che gli inconvenienti non superino i vantaggi...
L'equilibrio si ritrova se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, ossia un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc. Immaginiamo questo nuovo contesto in cui le denominazioni nazionali dell'euro non sono direttamente convertibili verso l'esterno (in dollari, yuan, ecc.) né tra loro. Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca centrale europea, che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma è privata di ogni potere di politica monetaria. Quest'ultimo è restituito a delle banche centrali nazionali e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno.
La convertibilità esterna, riservata all'euro, si effettua classicamente sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la Banca centrale europea (Bce), che è il solo organismo delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. Di contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell'euro tra loro, si effettua solo allo sportello della Bce, e a delle parità fisse, decise a livello politico.
Ci sbarazziamo così dei mercati di cambio intraeuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all'epoca del Sistema monetario europeo, e al tempo stesso siamo protetti dai mercati di cambio extraeuropei per l'intermediario del nuovo euro. E' questa doppia caratteristica che fa la forza della moneta comune.

* L'economista Frédéric Lordon è autore di «La crise de trop. Reconstruction d'un monde failli», Fayard, 2009.

Traduzione di Francesca Rodriguez, copyright Le Monde diplomatique /il manifesto



IL MONDO INCANTATO DELLA MONETA UNICA
di Pierre Khalfa*

Nel suo articolo Frédéric Lordon fa una critica radicale della costruzione europea. Non si può che approvarla nel momento in cui indica “la singolarità della costruzione europea come una gigantesca operazione di sottrazione politica (…) né più né meno che la sovranità popolare” (…)
Le divergenze riguardano invece la strategia, in quanto egli sostiene l'uscita dall'euro e la realizzazione di una moneta comune al posto della moneta unica (2). Per dirla in due parole, questa strategia è illusoria e politicamente nociva.

Innanzitutto, il problema attuale non è tanto l'euro quanto le politiche neoliberiste. Lordon ha certamente ragione a imputare la politica monetaria attuale condotta dalla Bce alle politiche di austerità. Ma niente garantisce che un'uscita dall'euro produrrebbe la loro fine. La Gran Bretagna ha mantenuto la propria moneta nazionale e, in più, la sua banca centrale conduce, contrariamente alla Bce, una politica non convenzionale di acquisto massiccio delle obbligazioni di Stato. Questo, però, non impedisce al governo britannico di gestire una delle politiche di austerità tra le più dure d'Europa. Il che testimonia che il problema è altrove, problema che Lordon non evoca nemmeno. I trattati europei e le altre direttive che escludono le politiche economiche dal dibattito democratico non sono state imposte agli Stati. Sono i governi nazionali che hanno lavorato per realizzarli.

Nell'Unione europea non è stato fatto nulla contro gli Stati, sono questi ad aver realizzato l'Unione europea come è oggi. Del resto, questo è accaduto proprio perché la sovranità popolare è stata spazzata via anche nel quadro nazionale. Ricordiamo la vicenda del trattato costituzionale europeo. Lordon sembra sovrastimare il funzionamento democratico degli stati-nazione, disconoscere le trasformazioni profonde che questi hanno subito con la mondializzazione (3) e non vede che essi sono dominati da una oligarchia politico-finanziaria dominata dal neoliberismo. Il deficit democratico dell'Unione europea trova il suo corrispettivo in quello degli stati-nazione. (…)

Senza una trasformazione in profondità degli stati-nazione, che presuppone un cambiamento politico radicale, l'uscita dall'euro non può permettere una rottura con il neoliberismo e se questa trasformazione dovesse avere luogo, renderebbe inutile l'uscita dall'euro.
Per Lordon, “l'idea di passare dall'euro attuale a un euro nuovo e progressista è un sogno vuoto. Se è progressista, i mercati finanziari, che attualmente detengono il potere, non lo lasceranno accadere”. Ma perché, allora, questi stessi mercati finanziari dovrebbero permettere la realizzazione della moneta comune che Lordon si augura? Perché questa moneta comune ha come obiettivo di conformarsi “all'imperativo categorico della democrazia che si chiama 'sovranità popolare'”. Che sia unica o comune, una moneta al servizio della sovranità popolare, europea o strettamente nazionale, non sarà accettata dai mercati ne dalle oligarchie al potere.
Lordon sembra averne coscienza in quanto afferma che “l'alternativa è dunque la seguente: lo stallo definitivo in un euro liberista (…) oppure lo scontro frontale con la finanza che vincerà a colpo sicuro...e allo stesso tempo perderà tutto poiché la sua 'vittoria' distruggerà l'euro e creerà le condizioni di una ricostruzione dalla quale i mercati saranno esclusi (sottolineatura nostra)”. Oltre a non capire, a priori, in cosa una vittoria dei mercati distruggerà l'euro, capiamo ancora meno come, una tale vittoria, creerebbe le condizioni di un'uscita progressista dalla situazione attuale. Lordon coglie bene che lo scontro con i mercati finanziari sia inevitabile ma pensa che la loro vittoria permetterà di restaurare la sovranità popolare sulla moneta. Senza dubbio un nuovo aspetto dell'astuzia della ragione. Un certo smarrimento coglie il lettore...
Supponendo anche che il pronostico della distruzione dell'euro possa verificarsi, come si può credere che mercati finanziari che sono riusciti a imporre la propria legge si farebbero mettere tranquillamente da parte da una moneta comune progressista?

In Lordon c'è la nostalgia di un big bang distruttore – l'esplosione della zona euro – che creerebbe una pacificazione salvifica con la realizzazione di una moneta comune. Perché, con quest'ultima, tutti i problemi posti dall'euro, sparirebbero come per incanto. Così la Bce sarebbe “privata di qualsiasi potere politico monetario (...) (noi saremmo) protetti dai mercati di cambio extra-europei dall'intermediazione del nuovo euro (…) la calma interna alla zona monetaria europea, sbarazzatasi dal fardello dei suoi mercati di cambio renderebbe le svalutazioni interamente politiche, da qui il ritorno alla negoziazione interstatuale per accordarsi su nuove parità di cambio”. Il controllo dei capitali sarebbe ristabilito e la Germania potrebbe essere forzata ad accettare l'apprezzamento della sua valuta per sostenere la domanda nella zona euro e la moneta unica diverrebbe così possibile nel quadro di una moneta comune. Mistero della transustanziazione e nuovo miracolo eucaristico!

Lontano da questo mondo incantato, la realtà rischia di essere più crudele. Lordon liquida in poche parola la questione del debito affermando, citando Sapir, che l'85% del debito francese soggiace al diritto francese e sarebbe quindi ridenominato nella moneta nazionale e di conseguenza non ci sarebbe alcun effetto in seguito a una svalutazione. In effetti, se l'emissione del debito sotto il diritto francese garantisce che in caso di conflitto tra lo Stato e i suoi creditori, questo sarà regolato dal tribunale francese (il che non garantisce che lo Stato rimborsi), non si vede perché se l'euro continua ad esistere, i creditori, in particolare i non residenti, accetteranno che un debito nominato in euro ora lo sia in una moneta meno forte. Bisognerà forzarli con delle azioni collettive, il che rinvia all'annullamento parziale del debito. Che è sempre possibile, con una moneta unica o comune che sia. Serve solo la volontà politica di farlo. Al di là di moneta unica o comune, il problema resta lo stesso: come mantenere una cooperazione monetaria in un contesto di guerra economica? Se l'euro dovesse sparire, non avverrà tranquillamente, ma in modo caotico. I governi, sottoposti all'imperativo della competitività, cercheranno di ritrovare i margini di manovra monetaria e non si capisce perché dovrebbero sottomettersi alla nuova disciplina imposta dalla moneta comune.

La questione che dobbiamo porci, dunque, è sapere se un'uscita dall'euro permette o meno più solidarietà. La risposta è semplice. In un'Europa con governi che, quale che sia il loro colore politico, si rifiutano di rimettere in discussione la logica del capitale, l'esplosione della zona euro porterebbe a una serie di svalutazioni competitive. Ogni paese cercherebbe di rubare quote di mercato ai suoi vicini svalutando la propria moneta e un simile orientamento si tradurrebbe in un gioco a somma zero in un'Europa in cui le economie sono integrate. Queste svalutazioni esterne, ci proteggerebbero da una svalutazione interna provocata dalla riduzione della massa salariale? Evidentemente no, perché bisognerebbe a quel punto lottare per “le nostre esportazioni per difendere il lavoro”, argomento che governi e classi dirigenti utilizzeranno a sazietà, se ne può star certi. In più, il rincaro delle importazioni avrebbe conseguenze sul potere d'acquisto della grande massa della popolazione che ne farebbe le spese.

Una strategia di svalutazione competitiva, che punta a guadagnare quote di mercato contro gli altri paesi, genera una spirale di politiche economiche non cooperative. Jacques Sapir segnala che bisognerà svalutare regolarmente la moneta nazionale. Lungi dall'introdurre più solidarietà tra i popoli, una simile strategia si tradurrebbe in più concorrenza, dumping sociale e fiscale con la conseguenza di aggravare le tensioni xenofobe e nazionaliste proprio quando, un po' ovunque in Europa, l'estrema destra ha il vento in poppa. L'uscita dall'euro si rivela un miraggio disastroso.
Che fare, dunque? Siamo condannati all'impotenza accettando la situazione attuale oppure a un'avventura ad alto rischio con l'uscita dall'euro? Esiste, in realtà, una terza via per i popoli europei. Che passa per uno scontro con le istituzioni europee e i mercati finanziari. Nessun cambiamento sostanziale avrà luogo senza aprire una vera crisi in Europa e senza il sostegno delle mobilitazioni popolari. Un governo di sinistra dovrebbe spiegare che è legato alla costruzione europea ma che rifiuta, in nome di questa, di distruggere i diritti sociali e impoverire la popolazione.

Il governo in questione dovrebbe prendere un certo numero di misure unilaterali spiegando che queste hanno l'ambizione di essere estese su scala europea. Si tratta di misure unilaterali cooperative, in questo senso non sono rivolte contro alcun paese, contrariamente alle svalutazioni competitive ma contro una logica economica e politica. Dunque, è in nome di un'altra concezione dell'Europa che un governo di sinistra dovrebbe allestire misure che rompano con la costruzione attuale. Ad esempio, un governo di sinistra potrebbe ordinare alla propria banca centrale di finanziare il deficit pubblico con la creazione di moneta. Si potrebbe fare, senza violare i trattati europei, indirettamente utilizzando come intermediario un istituto pubblico di credito come, ad esempio, la Cassa dei depositi (4). Si tratta, fondamentalmente, di intraprendere un processo di disobbedienza ai trattati e quindi un braccio di ferro con le istituzioni europee.

L'esito di questo braccio di ferro non è dato in anticipo. Si può ipotizzare un'esclusione forzata del paese ribelle, anche se il Trattato di Lisbona non prevede questa possibilità, come ha mostrato la minaccia alla Grecia in caso della vittoria elettorale di Syriza. Oppure si può produrre un effetto-domino progressista in altri paesi che, scindendosi, potrebbero instaurare un euro-bis, con innovazioni fiscali e di bilancio, solidali ed ecologiche. O, ancora, potrebbe esserci un rivolgimento della zona euro con una rifondazione dei trattati. Tutto dipenderà dai rapporti di forza che potranno essere costruiti su scala europea. La disobbedienza europea, cominciando necessariamente da un paese, potrebbe dare vita a un processo che acceleri l'emergere di una comunità politica europea, un embrione di “popolo europeo”.

La divergenza con Lordon, dunque, verte su due punti: da una parte, contrariamente a lui, noi pensiamo che sia possibile avanzare verso la costruzione di una sovranità popolare su scala europea il che suppone una trasformazione radicale della situazione attuale; d'altra parte, se non si può escludere, in certi casi, l'uscita dall'euro, questa sarebbe il risultato della congiuntura e di una battaglia politica per la rifondazione dell'Unione europea e non un progetto politico a priori. Questi due punti sono evidentemente legati. Proprio perché non abbiamo rinunciato alla battaglia “per un'altra Europa” non possiamo condividere il progetto dell'uscita dall'euro che ne rappresenta la negazione.

* Già sindacalista, militante dei movimenti sociali in Francia e Europa

Traduzione di Salvatore Cannavò

Note:
[1] Contre une austérité à perpétuité, sortir de l’euro?, Le Monde diplomatique, agosto 2013.
[2] La differenza essenziale tra moneta unica e comune attiene al fatto che quest'ultima lascia in vita le monete nazionali. Come spiega Lordon, ci sono molti modi di instaurare una moneta comune. Il sistema monetario europeo (Sme) che è esistito tra il 1979 e il 1993 ne rappresenta uno, esploso sotto i colpi della speculazione finanziaria garantita dalla libera circolazione di capitali. .
[3] Vedi Saskia Sassen, Critique de l’État. Territoire, autorité et droits, de l’époque médiévale à nos jours, Editions Démopolis, Paris 2009.
[4] Si tratta di utilizzare le possibilità offerte dall'articolo 123-2 del Trattato sul funzionamento della Ue.


USCITA DALL'EURO, MANEGGIARE CON CURA
di Henri Wilno

Questo dibattito, aperto dal M'pep (scissione di Attac) e dall'economista Jacques Sapir, è stato rivitalizzato da Frédéric Lordon, libero elettrone dell'altermondialismo. Si tratta di tornare sul fondo della questione senza distribuire voti ai protagonisti del dibattito.

Attenzione: un'uscita dall'euro non garantisce una politica progressista

Attorno a un punto c'è ampio consenso tra le critiche di Lordon e quanto, ad esempio, è stato sempre sottolineato dal Npa: l'uscita dall'euro non garantire affatto una politica progressista.
Il Regno Unito non è nell'euro, la politica condotta da Blair e poi da Cameron non è fondamentalmente diversa da quelle realizzate in Europa continentale e le prospettive di crescita sono limitate. In Svezia, la non appartenenza all'euro (respinto dal referendum nel 2003) non ha evitato una politica di rimessa in discussione parziale delle politiche sociali, flessibilità del mercato del lavoro, privatizzazioni.
Nel passato, la Francia non era nell'euro (che non esisteva) e questo non ha impedito che fosse utilizzato il tema della “costrizione esteriore”, sia dalla destra che dalla “sinistra” (sotto Mitterand) per giustificare politiche antisociali.
L'uscita dall'euro non è una “bacchetta magica” che permetterebbe di addolcire lo scontro necessario con le forze dominanti, interne ed esterne, che un “governo al servizio dei lavoratori” dovrebbe condurre una volta giunto al potere in uno Stato europeo.

Nessuna illusione sulla sola uscita dall'euro
Il discorso sulla uscita dall'euro come mezzo decisivo per liberarsi della “camicia di forza di Bruxelles” e attuare politiche progressive poggia su una cattiva analisi. Il trattato di Maastricht ha rappresentato un'ulteriore tappa nell'evoluzione dell'Unione europea. Ma l'euro non è che uno dei vincoli ai quali si contrapporrebbe un governo anti-austerità, un governo di lavoratori.
Commissione e Corte di giustizia europea interverrebbero non appena fossero prese misure anticapitaliste (o magari solo antiliberiste) (…)
Rispetto all'euro, misure concrete comporterebbero qualcosa di più delle proclamazioni. Proclamare una uscita immediata dall'euro sarebbe inutile e il suo costo consistente: un disordine crescente nella vita quotidiana dei lavoratori (un punto essenziale), svalutazione del Franco una volta ristabilito, crescita della fattura petrolifera (senza parlare del debito estero nel caso non fosse annullato[1]), che non sarebbe necessariamente compensata da più esportazioni. Al contrario, un governo dei lavoratori prenderebbe subito delle misure unilaterali (controllo dei movimenti di capitali, espropriazione delle banche) e proporrebbe il loro ampliamento. Metterebbe fine all'indipendenza della Banca centrale e comincerebbe di fatto a emettere euro per finanziare la propria politica. Il processo di rottura con la zona euro di fatto sarebbe avviato. La politica monetaria e del credito avrebbe come bussola: “Non un solo sacrificio per l'euro”.
In termini generali, un governo al servizio dei lavoratori dovrebbe intraprendere azioni unilaterali di riorientamento dell'economia e della società e di miglioramento immediato delle condizioni di vita delle fasce popolari da proporre all'insieme dell'Europa. Sarebbe, come dicono i giuristi, una rottura de facto con l'Ue che non impedirebbe di negoziare [2] per fare pressione sugli altri Stati-membri.
In funzione degli avvenimenti, nel o nei paesi impegnati in un processo di transizione verso un altro modello di società, si porrebbe la questione delle misure con cui difendere le nuove conquiste. Si tratterebbe così di giungere a una rottura aperta (de jure) con i trattati europei, l'Unione europea e dunque l'euro.
Infine, un tale processo non si produrrebbe senza ulteriori scontri in cui, alla fine, i rapporti di forza saranno decisivi. A ogni tappa, un governo dei lavoratori dovrebbe prepararsi a quella successiva. Ecco perché è illusorio lo scenario di una successione regolare, dalla moneta unica a una costruzione “moneta comune+divise nazionali”, come quella avanzata da Lordon.

La zona euro può affondare
Altra cosa è l'analisi secondo la quale l'euro viene sospeso a causa dei vizi congeniti ai trattati europei. La zona euro, oggi, si trova effettivamente nell'incertezza. Come avevano sostenuto i sostenitori del “no” a Maastricht, è fallita nei suoi obiettivi di omogenizzazione economica dei suoi componenti. I rapporti tra gli Stati europei sono sempre più asimmetrici. I meccanismi di decisione scivolano ogni volta che uno Stato si mostra reticente. E' il caso, in questo momento, dell'unione bancaria, peraltro annunciata in pompa magna come segno di una nuova tappa di prevenzione delle crisi bancarie.
Si potrebbe pensare che l'uscita dall'euro, o una divisione della zona euro, potrebbe essere indotta dagli stati dominanti (Germania) se i debiti sovrani o le crisi bancarie generassero perturbazioni troppo onerose per i meccanismi di cooperazione esistenti (come l'Esm). Ma le posizioni concrete di Angela Merkel sono rivelatrici che una simile scelta non è quella delle borghesie europee. La questione è sostanzialmente economica. La decisione, dunque, sarebbe presa certamente in funzione di considerazioni politiche che però rinviano al posizionamento globale degli Stati capitalisti europei.

Il salto possibile nell'ignoto non va ignorato. Ma questo non aprirebbe necessariamente un orizzonte radioso per i popoli e i lavoratori d'Europa. Un affossamento dell'euro, al contrario, come prodotto delle avarie della crisi e delle contraddizioni politiche delle borghesie europee, inaugurerebbe un periodo di tensioni nazionali che sfocerebbe nel rafforzamento e nell'andata al potere dell'estrema destra. Il fatto che questo orizzonte faccia parte delle possibilità rende ancora più necessario per le forze anticapitaliste, oltre all'intervento attivo nelle lotte, la predisposizione di un'altra prospettiva sociale di civiltà in sintonia con le preoccupazioni di movimenti come Occupy Wall Street o gli Indignados in grado però di porre, a differenza di questi movimenti, la questione del potere.

L'orizzonte della rottura
Come rompere con le politiche di regressione sociale in Europa? Un progetto di riorientamento progressista dell'Unione europea ha una pertinenza pratica? Nei fatti, le borghesie europee e le forze politiche dominanti, di destra e di sinistra, sono unite nell'essenziale di un programma di austerità. I salariati, invece, continuano a lottare paese per paese. Su questa base, si può ritenere che la sola prospettiva credibile sia quella di una vittoria sociale e politica in un solo paese. Ma questa potrebbe imbrigliare l'insieme dell'edificio e dunque bisognerebbe agire per estenderne la dinamica ai paesi vicini.
La questione delle strade e dei livelli di un percorso di rottura con le politiche dell'Unione europea è stata posta nel libro coordinato da Cedric Durand (Per finirla con l'Europa, [3]). Essa appare esplicitamente nel contributo di Coriat e Coutrot con formulazioni vaghe ma comunque molto corrette: “Noi pensiamo che, se rotture si verificheranno con il neoliberismo radicalizzato e politicamente insostenibile, queste avverranno innanzitutto sul piano nazionale. La Grecia, il Portogallo, la Spagna, dove importanti movimenti civici hanno cominciato a emergere, sono i candidati preferiti e il ventaglio delle possibilità si amplia in misura dell'approfondimento della crisi. Ma nessun paese singolarmente preso può giungere alla rottura né potrà, da solo, tracciare la propria via di uscita dalla crisi”.
Pierre Khalfa vuole essere più preciso ma, così facendo, si immette in una logica “a tappe”, illusoria in cui “un governo di sinistra” (??) discuterebbe, negozierebbe, potrebbe anche violare formalmente i trattati europei. A proposito dell'euro, poi, se la cava con un gioco di parole: “Senza una trasformazione in profondità degli Stati-nazione, che presuppone un cambiamento politico radicale, l'uscita dall'euro non può permettere una rottura con il neoliberismo ma se questa ha luogo, renderebbe inutile l'uscita dall'euro”.
Il merito di Khalfa, comunque, è di non restare chiuso nel nazionalismo anche se tende a trasporre a livello europeo la linea zigzagante seguita a livello francese dal Front de Gauche (al quale peraltro appartiene).

[1] Jacques Sapir, sull'impatto dell'uscita dall'euro sul debito estero, avanza un'argomentazione da studiare, anche se Pierre Khalfa si autorizza a scartarla senza un esame reale.
[2] Nota storica: come i bolscevichi russi hanno fatto al loro tempo. Un paese in transizione non può fare astrazione dell'ambiente che lo circonda.
[3] La Fabrique éditions, 2013.

Traduzione Salvatore Cannavò


L'Europa, una costruzione al servizio del capitale
di Claude Gabriel

Il dibattito animato da Frederic Lordon, da Thomas Coutrot e Benjamin Coriat (la Marianne), e da Pierre Khalfa su euro, crisi e come uscirne, è molto interessante a condizione di non ridurlo a un confronto tra una deriva sovranitsta (Lordon) e la sua contestazione. Molte sono le cose da sottolineare.
Le due argomentazioni hanno come unico obiettivo quello di trovare uno sbocco programmatico al vizio originario che, per i popoli e i movimenti sociali, rappresenta l'edificazione liberista dell'Unione europea e dell'Unione monetaria. Che fare? Che dire? Quali prospettive e parole d'ordine elaborare? In Lordon, nonostante la sua posizione sul ritorno alla “sovranità popolare”, c'è il bisogno di parole d'ordine quasi agitatorie: “Uscire dall'euro”, ritorno alle monete nazionali vestite da “moneta comune” (contro la moneta unica) con l'obiettivo, si suppone, di favorire gli scambi intra-europei e di evitare la speculazione e l'instabilità delle divise. “Niente più crisi speculative”, per effetto del deprezzamento delle fluttuazioni “nella calma” di “negoziati politici”. “La moneta comune, aggiunge, combinerebbe il meglio dei due mondi”. La critica radicale dell'euro e della costituzione europea che, sostiene Frederic Lordon, sfocia in una sorta di programma minimo, da ritenere ragionevole poiché, naturalmente, si basa sulla crisi attuale dell'euro. Salvo che non si capisce bene chi sarebbe il soggetto politico e sociale di questa riforma. Ci ritorneremo.

Di primo impatto, le critiche di Coutrot, Coriat e Khalfa sembrano molto propagandiste, lontane, astratte: “La priorità è di lavorare alla solidarietà dei popoli e dei destini in Europa piuttosto che di preconizzare un ripiegamento su basi nazionali (…) Bisognerà puntare sulla costruzione, nel fuoco delle lotte che si svilupperanno, di una nuova coscienza collettiva europea (Tc, Bc) o, ancora: “Noi, governo di questo paese, cominciamo a farlo da noi (la soddisfazione dei bisogni sociali). Invitiamo i movimenti sociali e i popoli europei a fare lo stesso ovunque per riappropriarci insieme della nostra moneta” (Pk).
Le loro posizioni si legano simmetricamente a quella di F. Lordon. Anche se, giustamente, affermano: “Ritornare in un quadro nazionale non permetterà di affrontare seriamente alcuno dei problemi che trent'anni di deregolamentazione finanziaria, sessanta di integrazione economia e due secoli di sfruttamento ecologico ci hanno lasciato”. Nondimeno, la propaganda sul concatenamento possibile delle lotte in Europa a partire da un esempio nazionale di rottura lascia insoddisfatti.

Un accumulo di sconfitte da 30 anni a questa parte
Nelle due tesi l'imbarazzo è visibile. E dipende dal fatto che la costruzione europea, in particolare dopo l'Atto unico del 1986 e il trattato di Maastricht del 1992, ha rappresentato un'immensa sconfitta per il movimento operaio e per i movimenti sociali nazionali. Le lotte di oggi, per quanto siano incoraggianti e frutto di profonde evoluzioni sociali, non indicano al momento alcuna prospettiva. Anzi, è giusto temere, qui o là, una radicalizzazione sciovinista, xenofoba, agli antipodi della resistenza progressista che si augura Khalfa e noi tutti. C'è sicuramente una crisi della costruzione europea, essenzialmente nella sua dimensione monetaria. Ma le crisi del capitalismo si giocano sempre sul terreno sociale e politico. Se, come negli anni '70, la borghesia riesce a mantenere il controllo, il sistema ritrova le sue risorse a scapito dei popoli. Trent'anni di sconfitte hanno smantellato il vecchio movimento operaio, lasciandone solo brandelli. La questione posta, oggi, è quella della ricostituzione pressoché totale del movimento sociale a opera di una nuova generazione militante e sulla base di una “coscienza europea”. Solo uno o più eventi fondatori, esplosioni sociali dal contenuto anticapitalista possono permettere questo sul medio termine. Senza questa ricostruzione del soggetto sociale e politico, i trent'anni di costruzione europea liberista (largamente ispirata dai partiti socialisti) si prolungheranno senza dubbio nella crisi ma soprattutto nella regressione sociale. Senza la consapevolezza di questo processo, il dibattito militante su “quale risposta alla crisi?” sarebbe inevitabilmente astratto e propagandista, anche se stimolante e assolutamente necessario.

Se Frederic Lordon cerca la formulazione di una rivendicazione riformatrice, fondata su una critica radicale dell'Unione monetaria, a differenza dei suoi detrattori, egli non indica nessun attore politico e sociale in grado di costruire questo orizzonte tranne la sua nebulosa “sovranità popolare”. Il punto è che occorre fare luce su quello che è successo nel corso degli ultimi trenta anni e che costituisce ormai un tratto importante del capitalismo. Oggi, la minima riforma regolatrice che si frapponga ai bisogni divoranti del capitale necessita di uno scontro politico e sociale. E' la grande differenza con il passato ed è quello che spiega, in parte, il capitombolo liberista dei socialisti europei. A priori, il loro punto di partenza è il rifiuto dello scontro sociale e quindi gli è preclusa qualsiasi pratica neo-riformista. Si può sopprimere la pena di morte, permettere il matrimonio fra tutti senza però toccare il funzionamento e le necessità del capitale (...)
Manca, peraltro, una dimensione a questa discussione, assente in tutte e due le posizioni a confronto. La costruzione europea viene descritta come una costruzione politica liberista nel migliore dei casi voluta da oligarchie “politico-finanziarie” se non il frutto di governi a rimorchio della Germania. In quest'ultimo caso, il giudizio è anche radicale: “L'euro non è una risposta monetaria a una questione economica ma una risposta a un problema politico: il muro di Berlino era venuto giù” (Lordon). Lasciamo stare il fatto che la caduta del muro avviene tre anni dopo l'accelerazione del processo liberista europeo, l'Atto unico. Ma questi atti politici, del tutto fondamentali nella costruzione monetaria, hanno avuto due grandi motivazioni economiche: il ristabilimento dei profitti dopo la recessione degli anni 70 e quindi la volontà parallela di ristabilire il percorso dei “trenta gloriosi” e la volontà delle grandi imprese di dotarsi di un nuovo spazio di crescita e razionalizzazione delle loro attività. Quest'ultimo punto è a torto dimenticato.

1. Le imprese, sicuramente le più grandi, quelle che pesano sui governi, hanno sofferto negli anni '70 della forte inflazione dell'epoca. Mentre gli scambi intra-europei non cessavano di aumentare, inflazione e volatilità delle divise rendevano la vita dura a chi realizzava l'80% del proprio giro di affari con diversi paesi appartenenti al Mercato comune. In un certo senso, il ristabilimento dei profitti passava per una stabilizzazione degli effetti monetari sui loro bilanci, in particolare sulle perdite dovute al cambio. Com'era concepibile, del resto, perseguire una crescita sovranazionale con un tale imbroglio monetario sui loro mercati prioritari?

2. A questo va aggiunta un'altra dimensione, troppo spesso omessa. Nel corso degli anni '70, i mercati di massa che avevano provocato la crescita dei due decenni precedenti sono progressivamente divenuti maturi. La domanda solvibile riferibile a questi era ormai soddisfatta e di conseguenza i tassi di crescita annuale si attenuavano fortemente. In questa circostanza, la risposta del capitale è stata a poco a poco la stessa: concentrazione ed estensione commerciale.

3. Per sperare di rilanciare un nuovo ciclo di crescita, occorreva favorire la tendenza alla trans nazionalizzazione dei colossi nazionali e così abbassare il costo dei fondi propri e disintermediare la fonte dei finanziamenti. Tutte cose che furono realizzate dagli anni '80 con l'Atto unico (libera circolazione di merci e capitali) e, per quanto riguarda la Francia di Mitterand e il partito socialista, con il famoso libro bianco di Bérégovoy nel 1986.
Il paradosso era quindi determinato fin dall'inizio tra un movimento generale di costruzione di norme europee industriali e commerciali e l'assenza di norme sociali. La normalizzazione tecnica accelerava le concentrazioni e soprattutto schiacciava le imprese nazionali più deboli a causa dei consistenti investimenti necessari. L'assenza di convergenza sociale dall'alto favoriva, all'inverso, un gioco competitivo fortemente sbilanciato sul lato sociale e fiscale.

I colossi nazionali, prima ancora che si consolidasse il concetto stesso di mondializzazione, avevano bisogno della costruzione europea per accelerare il processo di accumulazione, ampliare i loro mercati, eliminare i più deboli, riorganizzare le loro attività in un nuovo spazio... senza il vincolo di tassi di cambio multipli, di calcoli incessanti sulle perdite o i guadagni sul cambio. Le grandi imprese europee non hanno solo approfittato di quest'Europa, l'hanno pretesa.
Quando il capo di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne, dichiara a proposito della crisi automobilistica europea “è l'Europa che deve farsi carico di questa transizione perché, individualmente, i governi dei vari paesi non lo faranno”, egli illustra perfettamente la situazione. Le concentrazioni europee, peraltro, continuano in diversi settori, specialmente in quelli che hanno bisogno di un spazio senza soluzioni di continuità per trovare nuove economie di scala: telecomunicazioni, trasporti ferroviari, etc. Bisogni che non rientrano nella categoria dei puri bisogni speculativi dei mercati finanziari né in quella delle semplici ossessioni liberiste “dell'oligarchia politica”.

Non dimenticare questa dimensione essenziale della costruzione europea dagli anni '80 in poi, permette di integrare i diversi pronostici che accompagnano l'attuale crisi della zona monetaria. Credere che le multinazionali europee sarebbero disposte senza problemi a privarsi di una conquista essenziale alla propria crescita è un errore. F. Lordon ne è consapevole quando propone una moneta “comune” al posto dell'euro senza però dimostrare come questa eviterebbe il ritorno all'instabilità dei cambi tra monete nazionali riesumate. Le grandi imprese, fortemente beneficiarie di questo spazio di libera circolazione del capitale e della moneta unica, non hanno nessuna voglia di tornare a una guerra tra monete. E agiscono di conseguenza sui vari governi. Sì, l'euro è stata una risposta a un problema economico. Di fatto, il movimento sindacale ne paga duramente il prezzo. Frantumato, chiuso in una difesa spesso nostalgica del proprio spazio nazionale, non ha un'organizzazione europea come i grandi gruppi. E' un ritardo pesante che evidentemente ha delle conseguenze sull'elaborazione di un programma alternativo alle istituzioni europee attuali.

Claude Gabriel

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