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31/07/2013

Napoli. Mutazioni antropologiche e palliativi

Sentite questa ché è bella. Vicino casa mia c’è un ponte. È un piccolo ponte, niente di che, ma tutto sommato carino, soprattutto rispetto allo schifo che sta intorno. Poi sta bello in alto, e da lì nei giorni buoni si vede il Vesuvio, il mare e anche le isole. Sta sulla strada per andare alle scuole, l’ho fatto ogni mattina per otto anni, e infinite volte la sera tornando a casa. Lì si fermano ancora oggi i ragazzini, a organizzare i filoni, a guardare il panorama o a darsi i primi baci. Ci passano anche quelli che portano a pisciare il cane, e li vedi alzare un attimo la testa e guardare lontano e pensare chissà che. E ci va chiunque voglia prendere una boccata d’aria fuori da questo Rione che è solo palazzi alti, azzeccati l’uno all’altro.

Negli anni è capitato spesso che qualcuno da questo ponte si è buttato giù. Noi uscivamo da scuola, vedevamo il casino, cercavamo di sbirciare. La gente intorno commentava. Non ricordo un’atmosfera tetra, più che altro era l’occasione per parlare un po’ fra sconosciuti, le massaie e i vecchi che si improvvisavano filosofi. Dei miei amici qualcuno rideva, ma non era crudeltà: semplicemente i ragazzini c’hanno tanta di quella vita davanti che il vuoto non lo avvertono. O forse avevano già capito una grande verità: che ogni tanto va così, e non c’è da fare tante storie.

Due settimane fa da questo ponte si sono buttate giù due persone, nella stessa giornata. La crisi, hanno detto alcuni. Quando mai, erano depressi, hanno detto altri. Io non so che pensare, perché non li conoscevo, e mi fa strano attribuire motivi e casistiche a cose così intime. Forse la crisi c’entra, nessuno di loro aveva dietro situazioni stabili, stuoli di medici, lussi, ammiratori. Però mi pare che se vivi senza una prospettiva, senza trovare un senso in quello che fai, senza saperti appassionare alle cose e alle persone, a che ti serve un posto fisso, a che ti servono i milioni…

Comunque, dopo sti fatti si è scatenata una polemica infinita nel miserabile sottobosco politico/giornalistico locale. Siccome sta roba che la gente si butta giù pare brutta, e poi i poveri residenti ne escono ogni volta sconvolti, bisogna far qualcosa! L’opposizione incalza, il Presidente della Municipalità fa grandi proclami e si dice pronto a mettersi giorno e notte con una tenda sul ponte per evitare che qualcuno si suicidi… Ed effettivamente un Presidente di Municipalità può farti passare la voglia di questo e altro. In ogni caso lui il suo culo l’ha tenuto a casa, e per giorni sul ponte ci sono stati i vigili 24 ore su 24. I vigili! A presidiare un ponte! In una città come Napoli, dove il minimo che ti può capitare è finire in una voragine perché le strade cadono a pezzi! Bah. Sta di fatto che sti vigili guardavano storto ogni persona che passava da quelle parti. Ti scrutavano come un potenziale suicida. Non potevi avvicinarti alla balaustra per poggiarci i gomiti e goderti un po’ di fresco, di veduta, di rumori lontani, che subito si allarmavano. Quasi facevano venire voglia di buttarti giù solo per fargli dispetto. Che idea buffa, i vigili a vigilare sui vuoti delle nostre coscienze. E poi, mi dico, ma se sto ponte fa venire tutto sto genio, non è che poi a furia di starci su finisce che si buttano giù i vigili stessi? Come sempre: chi controlla i controllori?

Alla fine hanno trovato una brillante soluzione. Meno faticosa per il Presidente della Municipalità, meno dispendiosa per gli onesti contribuenti. Hanno tirato su, tutto intorno al ponte, delle inferriate. Ma anche inferriate è troppo, detto così pare una cosa artistica. No, sono delle reti, anche molto brutte. E mi chiedo: per anni da lì s’era buttata tanta gente, e tutto sommato la cosa passava, la si accettava come una disgrazia, un’imperfezione nel grande disegno di Dio o della Natura. Ora invece si decide di tirare su delle grate. Cos’è cambiato? Forse hanno in mano delle statistiche che dimostrano che il fenomeno dei suicidi dai ponti aumenterà? Chissà.

Io ci vedo in atto una mutazione antropologica. A Napoli abbiamo elaborato nei secoli una splendida e terribile forma di difesa dal destino crudele: il lasciar andare, lo scordare, l’accettare e il riderci, amaramente, su. Una sorta di nobile rispetto verso le cose come vengono. Adesso si pretende di intervenire, come se fossimo al Nord o in Occidente. Perché “bisogna fare qualcosa” è un imperativo indiscutibile. Solo che siccome siamo a Napoli, le reti sono basse e leggere, ché più grosse costavano, e sbilenche, ché a fissarle bene si spendevano troppi soldi…

Insomma, l’unico effetto che hanno ottenuto è che ora il panorama si vede come da un carcere. Come se non bastassero le grate e i cancelli che abbiamo già alle finestre delle scuole, intorno alle case, sui posti di lavoro… Passeggiare su quel ponte adesso fa schifo. Non puoi appoggiarti alla balaustra e tirare un respiro profondo guardando la città. E nonostante tutto sto casino, anzi, forse proprio per questo casino, quattro giorni fa un ragazzo di 25 anni si è buttato giù. E ieri un altro povero dio ha scavalcato le reti – d’altronde ce la farebbe anche un paraplegico – e minacciato di lanciarsi. Pare che fosse senza lavoro e disperato, e la polizia lo abbia convinto a desistere. Gli avranno detto che la vita è bella, però di non farsi venire il ticchio di scendere in piazza a protestare con gli altri disoccupati perché sennò poi lo dovranno manganellare.

Comunque, ora le apparenze sono salve: abbiamo fatto qualcosa. Adesso, forse, con un po’ di fortuna, la gente non si butterà giù dal ponte. E che farà, mi chiedo? Si butterà dal proprio appartamento? Aprirà il gas così magari salta tutto il condominio? Proverà folli corse in macchina così tira giù qualcun altro insieme a lui? O magari si taglierà le vene a casa, così non romperà i coglioni al prossimo e tutto si risolverà in maniera pulita, tranne per la signora delle pulizie che dovrà lavare il macello? Non è dato sapere. Però mi sento di dire che siamo entrati in Europa. Abbiamo fatto come a Parigi, che siccome troppa gente si buttava sotto i binari della metro, hanno messo su tutte le banchine delle stazioni centrali delle belle porte scorrevoli, che si attivano solo quando passa il treno. Così non ti puoi buttare sotto stile Anna Karenina. Se vuoi morire vai a qualche fermata periferica. Non ti daremo l’onore di schiattare, che ne so, sotto la Torre Eiffel o vicino Notre-Dame. Ai turisti dispiacerebbe.

In ogni caso, la gente a Parigi si butta lo stesso sotto i treni della metro. E gli altri passeggeri mica pensano: poverino. Sbuffano, sbottano, vanno di fretta e gliene sbatte il cazzo. Particolare divertente: siccome l’azienda dei trasporti se n’è accorta, e gli pareva poco corretto incitare, con i propri annunci, i passeggeri a esternare quello che pensavano, ora hanno deciso che non dicono più cosa succede. Scrivono che la circolazione è perturbata perché c’è stato un incidente. Così resti nel dubbio, e non ti va di fare commenti cattivi. Magari uno sui binari c’è caduto per sbaglio. Questo tutto sommato può capitare anche a te. Finirci apposta no, invece, quello no.

Se penso così tanto a queste cose è perché mi sembrano begli esempi di palliativi. In fondo su questa logica del palliativo si regge tutta la nostra società. Tipo: sfruttiamo i paesi del Terzo Mondo, li ricattiamo con il debito, gli distruggiamo l’agricoltura e l’industria, li costringiamo a privatizzare la scuola e la sanità. Milioni di persone muoiono di fame, i bambini ci salutano al primo raffreddore, ma noi ci portiamo lì le nostre ONG, i nostri preti, i nostri giovani fricchettoni e magari apriamo una scuola e un ospedale. Un bel palliativo, che ci mette la coscienza a posto.

Oppure adottiamo un bambino a distanza, che da piccolo è così carino, poi quando fa 18 anni e decide di venire da noi a cercare fortuna ci fa un po’ schifo e lo mandiamo in un centro di identificazione e di espulsione, una specie di lager. Poi però ci dispiace ammettere che siamo razzisti, e allora a un negro possiamo far vincere magari qualche programma televisivo. Anzi no, lo facciamo vincere a un albanese. Quelli rubano, lo sanno tutti, però ogni tanto ne esce uno che sa pure ballare. I pregiudizi continuano, tutto resta com’è, però abbiamo l’impressione che sia meglio. Palliativi.

Come quando Obama vince le elezioni, e ti dicono che è un grande passo per i neri d’America. Poi dopo ammazzano un ragazzino di 17 anni disarmato, il vigilantes che ha sparato se ne esce pulito pulito, e tutto resta com’è. Vabbè questa era facile, facciamone una più difficile. Le donne nel nostro paese. Fanno una vita di merda: lavorano in casa e fuori, o magari non lavorano perché qualcuno non le ha assunte dato il loro atavico vizio di restare incinte, o perché la famiglia gli dice: cazzo lavori a fare, trovati un marito. E comunque quando escono di casa si devono sentire qualche commento dietro, il collega che gli fa la battuta sul culo, l’allusione sessuale del capo… Però poi c’è da essere felici perché il Presidente della Camera è donna, l’ex di Confindustria è donna, il leader del più grande sindacato d’Italia è donna. E a casa gli amici o la televisione aggiungono che siccome loro c’hanno la figa alla fine la comandano, basta imparare a venderla al giusto prezzo. Palliativi. I problemi restano lì, il rapporto di subordinazione resta lì, e tutto quello che ti propongono è di adattarti, di contentarti. Vedi? In fondo anche tu hai un potere: quello di volere le grate, di mandare un SMS, di scegliere il tuo oppressore, di votare un nero nelle urne e un albanese alla tv.  

Palliativi. La droga gira nei nostri quartieri? Arrestiamo gli spacciatori, che se sono minorenni è pure più facile pestarli. Ci sono scippi e rapine? Mettiamo telecamere e militari ovunque. La gente muore per tumori e infarti perché mangia di merda, respira di merda, vive di merda? Facciamo una bella campagna pubblicitaria dove li invitiamo a rimpinzarsi di frutta e verdura. E scriviamo sui pacchetti di sigarette che fumare nuoce gravemente alla salute. Come se tutto il resto, tipo lavorare in fabbrica o stare imbottigliati nel traffico, facesse bene.

È evidente che in questa storia dei palliativi c’è qualcosa di perverso, che bisogna assolutamente capire. Perché il palliativo non è solo un intervento temporaneo, un rattoppo, qualcosa che lascia invariate le cause. Ha anche un’altra funzione. Di legittimazione dell’esistente. Ora cammini sul ponte, e le grate ti ricordano che qualcuno da lì si è buttato. Prendi la metro, e le porte scorrevoli ti fanno pensare che i tuoi simili hanno voglia di farla finita. Accendi la televisione, e l’ONG ti bombarda con la fame degli altri. Vedi le telecamere, le camionette per strada, e ti dici che ci saranno ladri ovunque e ti senti ancora più insicuro.

Qui sta la perversione: il palliativo sembrava nato per curare almeno i sintomi, ora invece te li ripresenta costantemente. Il suicidio, la povertà, il crimine, che si volevano bandire, sono continuamente evocati. Sembra un paradosso, invece serve. Il palliativo deve sempre metterci in presenza del negativo e inchiodarci lì, perché ci deve far pensare impossibile il positivo. Ci deve sottilmente convincere che una società dove la gente non si butti giù da un ponte non sia davvero possibile. Che non sia possibile un mondo dove non si muoia di fame. Che non sia possibile una città dove la gente non rubi e non si faccia le scarpe a vicenda. Questa è la fondamentale differenza fra i palliativi e le soluzioni. Le soluzioni provano a cambiare la realtà, a farla diventare un’altra cosa. La linea di separazione fra la Conservazione e la Rivoluzione ricalca esattamente la distinzione fra i palliativi e le soluzioni. 

E qui viene il brutto. La linea è chiara, ma percorrerla è durissimo. Perché, a essere sinceri, anche noi che ci pensiamo così diversi, su questo punto siamo uguali agli altri. Non pensiamo davvero alle soluzioni, ci bastano i palliativi. Per la maggior parte del tempo, anche se diamo l’impressione di agitarci, siamo passivi, ci lasciamo vivere. Ci troviamo la nostra identità, le nostre perversioni, facciamo infiniti giri per non ammettere che qualcosa va cambiato. Poi il problema si presenta in tutta la sua forza, e ci sentiamo disarmati. Tiriamo su le grate per difenderci o per non sporgerci, pretendiamo di uscirne puliti e a poco prezzo, invochiamo l’aiuto di qualche autorità. Siamo patetici, come i vigili sul ponte, come il Presidente della Municipalità, come i militari nelle piazze. Di sicuro più di quelli che si buttano giù, che qualche coraggio lo hanno trovato.

Che ci tocca fare, allora? Niente, o tutto: odiare questa parte molle di noi stessi, odiare i palliativi, dentro e fuori di noi. Forse non c’è un’altra via per essere quello che possiamo, per essere rivoluzionari.

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