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25/07/2013

La Corte Costituzionale ha bocciato il "modello Marchionne"

Le motivazioni con cui la Corte Costituzionale ha bocciato il "modello Pomigliano", imposto dalla Fiat di Marchionne e accettato dai sindacati "complici", riportano al centro del conflitto sociale il nodo della "rappresentatività" delle organizzazioni sindacali.

La Consulta ha infatti argomentato la bocciatura dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori, nella parte modificata con il referendum del 1995, che escludeva dai diritti sindacali le organizzazioni non firmatarie di contratto. Quella norma, spiega, viola l'art. 39 della Costituzione, "per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale".

Com'è noto, il referendum del 1995 venne convocato proprio per escludere dai luoghi di lavoro i sindacati conflittuali, che a quel tempo erano di fatto soltanto quelli "di base". La lunga stagione di conflitto nella seconda metà degli anni '80, soprattutto nella scuola, aveva ridotto notevolmente il radicamento in alcune categorie dei sindacati confederali "ufficiali" (Cgil, Cisl e Uil), compromettendone la "rappresentatività". In altre parole, a nome di chi firmavano contratti e accordi - regolarmente a perdere - se i lavoratori non erano d'accordo e partecipavano alle mobilitazioni indette da altre sigle?

Per quasi venti anni l'art. 19 è stato applicato, nonostante numerosi ricorsi legali. Poi, quando Marchionne ne ha fatto l'architrave del suo "modello Pomigliano", ben presto esteso a tutto l'universo Fiat in Italia (nonostante le assicurazioni che si trattava di un "caso solitario" e irripetibile), allo scopo dichiarato di escludere la Fiom dai propri stabilimenti, il caso è diventato "politico" in senso stretto.

L'esclusione ha infatti conseguenze pesanti: nessun diritto sindacale (assemblee, delegati, riscossione delle quote, permessi, ecc), nessuna agibilità sul luogo di lavoro, quindi ben poche possibilità di "organizzare" i lavoratori, fare proselitismo e iscritti, "crescere" numericamente e come influenza. E' quello che hanno subito per venti anni i sindacati di base, ma in questo caso si mirava al cuore della categoria più importante della storia sindacale italiana - i metalmeccanici - e alla sigla che poteva vantare la maggioranza assoluta degli iscritti, la Fiom. Per di più, una sigla storica appartenente alla confederazione Cgil.

La Cassazione ha quindi riconosciuto che "Nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività" e "si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell'accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione". In pratica, ha sentenziato la Consulta, firmare o no un determinato accordo non cambia in nessuna misura la "rappresentatività" di un sindacato. E, per quanto riguarda l'art. 2 della Costituzione, questa esclusione viola i diritti fondamentali di libertà dei singoli lavoratori, che devono poter scegliere liberamente chi delegare a rappresentarli ad un tavolo di trattativa. Altrimenti, come in Fiat, è l'azienda a scegliere con chi far finta di "trattare", imponendo il proprio volere senza più contrasto.

Un concetto addirittura esplicitato in questo passaggio: i sindacati, "nell'esercizio della loro funzione di autotutela dell'interesse collettivo, sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del loro rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l'azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa". Un rovesciamento del ruolo del sindacato - da "rappresentante dei lavoratori" a "soggetto negoziale scelto dall'azienda" - che è il vero obiettivo della "riforma delle relazioni industriali" in atto da qualche anno e cui anche la Cgil partecipa pienamente consenziente.

Quindi, è incostituzionale tutta quella parte dell'art. 19 della legge 300 del 1970 che "non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda".

La Fiat ha reagito malissimo, ovviamente. "La Fiat si riserva di valutare se e in che misura il nuovo criterio di rappresentatività, nell’interpretazione che ne daranno i giudici di merito, potrà modificare l’attuale assetto delle proprie relazioni sindacali e, in prospettiva, le sue strategie industriali in Italia". Tradotto: se non possiamo sceglierci con quali sindacati "trattare" potremmo anche andarcene dall'Italia.

Questa sentenza, nel suo cuore costituzionale, potrebbe essere una buona notizia per la libertà sindacale in Italia, perché di fatto dice che qualsiasi organizzazione sindacale - anche quelle che si dovessero costituire in futuro, in virtù della normale evoluzione dei rapporti di lavoro e della "concorrenza", ha pari diritti di agibilità di ogni altra; se non altro perché la loro legittimità viene esclusivamente dal rapporto con i lavoratori.

Resta però in piedi il nodo irrisolto - e mai legiferato - della "maggior rappresentatività". Ha infatti un senso pretendere che ci sia una maggioranza certa per poter firmare un contratto o un accordo. Il problema è come "certificare" l'esistenza di questa maggioranza. Un referendum tra i lavoratori interessati dovrebbe avere un valore vincolante; ma la prassi delle votazioni sui posti di lavoro (con seggi costituiti quasi sempre soltanto da funzionari dei sindacati firmatari di un accordo) non depone certo a favore della "certezza" che il risultato corrisponda effettivamente alla volontà dei "rappresentati". E lo stesso dicasi per le votazioni - quando si effettuano - per il rinnovo delle Rsu (le Rsa, come noto, vengono "nominate" direttamente dai sindacati, non dai lavoratori).

Un altro criterio, indicato tra molti dalla stessa Consulta, è quello del numero degli iscritti. Anche in questo caso, decenni di "autocertificazione" da parte dei vari sindacati hanno reso questo criterio puramente virtuale. Per capirci, un sindacatino che quasi non esiste come l'Ugl - l'ex Cisnal neofascista, "sdoganata" durante la segreteria Polverini - dichiara di avere 2,5 milioni di iscritti...

E resta il problema: un sindacato (o una nuova aggregazione di lavoratori che si potrebbe formare in futuro) che non ha agibilità in fabbrica come fa a tesserare chi vuole iscriversi?

Su tutte le domande pesa poi l'accordo "tra le parti" del 31 maggio di quest'anno, che accoglie in pieno il "modello Fiat", è stato firmato da Cgil, Cisl e Uil, e non prevede che nessun altra organizzazione sindacale possa mai accedere alla contrattazione di ogni livello senza il loro preventivo consenso. Altro che incostituzionalità, in questo caso!

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