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22/07/2013

Israele: prima testa, poi vende

Uno degli eserciti più potenti del mondo, una delle industrie di armi più tecnologicamente sviluppate ed in grado di infilarsi e proliferare nei mercati di Paesi ai quattro angoli del globo. Chi pensa che l'occupazione militare israeliana sia un mero costo per Tel Aviv, si sbaglia di grosso. Negli ultimi cinque decenni, l'industria militare israeliana ha raggiunto livelli inimmaginabili per un Paese apparentemente "piccolo". Ma a permettere di raggiungere successi tecnologici di tale fattura è il conflitto, sia locale che regionale.

Le armi, i carri armati, i sistemi di difesa anti-missile, da sempre vengono testati in casa e poi venduti fuori. Prendiamo l'ultima operazione militare contro la Striscia di Gaza, a novembre del 2012: durante gli otto giorni di "Colonna di Difesa", l'esercito israeliano ha lanciato 1.643 attacchi aerei. Nell'operazione - che ha lasciato sul terreno quasi 200 morti palestinesi, oltre l'80% dei quali civili - sono stati impiegati droni, Apache, jet F-16 e navi da guerra.

Un'industria vera e propria quella militare, fatta di compagnie private e società statali, di indotti e ramificazioni: nell'ultimo rapporto, reso noto la scorsa settimana da Tel Aviv, in Israele ben 6.784 imprenditori privati si occupano di esportazione di armi. Un numero a cui va aggiunta l'industria statale e che garantisce ad Israele di raggiungere il sesto posto nella classifica dei maggiori esportatori di armi al mondo, scavalcando Canada, Cina, Svezia e Italia.

Secondo un rapporto pubblicato dal quotidiano Ha'aretz, nel 2012 il valore totale delle esportazioni israeliane di armi ha toccato quota sette miliardi di dollari, con un incremento del 20% rispetto all'anno precedente. Un balzo in avanti garantito dagli affari stretti con i mercati di tutto il globo, dagli Stati Uniti all'Europa, dal Sud America al Sud Est asiatico. Per farsi un'idea del potenziale - già molto ben espresso - dell'industria militare israeliana, basti ricordare l'ultimo grande accordo stretto tra Tel Aviv ed un gigante del settore militare: la Lockheed Martin - 140mila dipendenti, 45 miliardi di fatturato, il principale rifornitore di armi del governo degli Stati Uniti, nonché della NASA - aprirà un centro di sviluppo tecnologico in Israele.

Obiettivo dell'accordo stretto con la Israel Aerospace Industries - la compagnia militare statale - è produrre le ali per il nuovo F35 della Lockheed. Un programma decennale, ribattezzato "Project 5/9", da oltre 210 milioni di dollari e che partirà nel 2015. Secondo i calcoli interni, il contratto con la Lockheed Martin potrebbe garantire ad Israele - almeno potenzialmente - entrate per circa due miliardi e mezzo di dollari.

A rendere grande fino ad oggi l'industria militare israeliana è sicuramente l'alta tecnologia. Il governo di Tel Aviv continua a puntare su tale superiorità, frutto di decenni di esercitazioni e test ma anche e soprattutto di conflitti veri e propri, tanto da immaginare un futuro in cui sarà la tecnologia la vera arma vincente. L'attuale ministro della Difesa, Moshe Ya'alon, ha annunciato poco tempo fa l'intenzione di dar vita ad un"nuovo esercito" per il quale l'utilizzo di droni sarà la quotidianità: «Non siamo schiavi della tecnologia - ha detto il ministro alla stampa - ma la usiamo e la adattiamo alla realtà, dove i conflitti armati a cui abbiamo assistito negli ultimi 40 anni stanno diventando sempre meno rilevanti».

A partire proprio dai droni e dai sistemi di difesa anti-missile ampiamente testati nell'ultima offensiva militare contro Gaza: a differenza della sanguinosa Operazione Piombo Fuso (dicembre 2008-novembre 2009), che dopo i bombardamenti aerei è proseguita con l'invasione via terra, stavolta l'esercito israeliano non ha messo piede in territorio palestinese, ma ha attaccato le città e le coste di Gaza esclusivamente con l'aviazione. E con i droni, aerei senza pilota, che hanno permesso così ai soldati israeliani di non aver alcun tipo di coinvolgimento diretto nell'attacco. Una guerra a senso unico, in cui l'IDF si è sporcato indirettamente le mani. Gli stessi droni che gli americani usano da tempo in Pakistan, in Africa, in Afghanistan.

«Il futuro ci porterà verso battaglie che saranno determinate dalla superiorità tecnologica dell'IDF in mare, aria e terra - ha aggiunto il ministro Ya'alon - Saranno sempre meno i mezzi pesanti e sempre di più le tecnologie sofisticate e senza equipaggio che ci daranno un significativo vantaggio su ogni nemico».

Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, compagnie israeliane pubbliche e private sono dietro il 41% dei droni esportati nel mondo nel decennio 2001-2011. Israele esporta ufficialmente in 24 Paesi del mondo, che con il velivolo senza pilota israeliano tagliano i costi: compri l'aereo, ma non addestri un soldato.

Torniamo a novembre e all'Operazione Colonna di Difesa: "L'ultimo round di attacchi israeliani contro i palestinesi della Striscia di Gaza ha permesso l'ottenimento di una serie di obiettivi del governo di Israele - ci spiega il giornalista israeliano Sergio Yahni, da tempo esperto della questione dell'industria militare del Paese - Ad esempio l'incremento delle vendite internazionali del sistema di difesa aereo Iron Dome che Israele ha sviluppato per intercettare e distruggere i missili a breve raggio che partono da Gaza. Il sistema Iron Dome è stato creato per individuare e abbattere i razzi da 155 mm in un raggio di azione di 70 chilometri".

"A luglio dello scorso anno [pochi mesi prima dell'offensiva contro Gaza, ndr], un giorno prima dell'arrivo dell'allora candidato presidente Mitt Romney a Gerusalemme - continua Yahni - il presidente Obama ha finanziato con 70 milioni di dollari il sistema Iron Dome. Non solo: Obama ha garantito altri 205 milioni per contribuire alla produzione del sistema. Oltre ai soldi americani, dietro Iron Dome ci sono due compagnie israeliane, giganti del settore: la Elta Systems, sussidiaria dell'Israel Aerospace Industries (un fatturato da 805 milioni di dollari, di cui il 90% derivanti da esportazioni); e la Rafael Advanced Defence System, fondata nel 1948 e da tempo laboratorio per il rifornimento di armi e tecnologie militari all'interno del Ministero della Difesa".

"Alla luce di tali numeri e tali coinvolgimenti - aggiunge Yahni - ritengo che l'offensiva militare israeliana contro Gaza sia stata utile a testare il sistema Iron Dome. Era già successo a marzo 2012, quando Israele ha compiuto una serie di omicidi mirati a cui i miliziani palestinesi hanno risposto con il lancio di missili. La prima 'uscita ufficiale' di Iron Dome, le cui vendite all'estero sono schizzate alle stelle. Prima si testa, poi si vende: gli ideatori di Iron Dome hanno spiegato che il sistema ha intercettato tra l'80% e il 90% dei missili. E dopo le offensive militari la compagnia Rafael è entrata nelle grazie americane, entrando in lizza per fornire un sistema simile agli Stati Uniti".

Lo aveva spiegato bene anche Shir Hever, analista economico israeliano dell'associazione Alternative Information Center, in un'intervista dello scorso inverno: «Dall'attacco contro Gaza, apparentemente Israele ha solo perso: non ha ottenuto un cambiamento della situazione, non ha indebolito Hamas, ha perso denaro pubblico. In realtà ha anche guadagnato: ha testato Iron Dome in un contesto di scontro reale. Ciò si è tradotto subito in contratti di vendita che copriranno i costi. Anzi, faranno intascare a Israele, alla compagnia statale Rafael e all'indotto, formato da società private, un bel mucchio di soldi».

E alle tecnologie da guerra si affianca anche il business della sicurezza interna: l'occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est: "Israele non ha abbastanza soldati per coprire gli oltre 700 checkpoint presenti nei Territori Occupati - ci spiega in conclusione Sergio Yahni - per cui si affida a compagnie private, facendo affluire altro denaro nel settore. Compagnie che prima si esercitano in Cisgiordania e poi mettono quell'esperienza a disposizione di altri: ad esempio, sono compagnie private israeliane ad addestrare la sicurezza per i prossimi Mondiali in Brasile".

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Che schifo...

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