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18/07/2013

Giappone tra yen e armi

di Michele Paris

Nelle elezioni di domenica prossima per il rinnovo della metà dei seggi della camera alta del parlamento (Dieta) giapponese, il partito Liberal Democratico (LDP) di governo dovrebbe riuscire a conquistare la maggioranza assoluta senza troppe difficoltà, bissando il nettissimo successo nel voto per la camera bassa dello scorso dicembre che aveva riportato alla guida dell’esecutivo l’ex premier Shinzo Abe. L’imminente appuntamento con le urne metterà così fine al parlamento diviso, consentendo al primo ministro di provare a perseguire con più agio le politiche all’insegna del militarismo e della liberalizzazione dell’economia annunciate da mesi.

Secondo un recentissimo sondaggio di opinione condotto a inizio settimana da alcuni media nipponici, l’LDP e il suo partner di governo - il partito Nuovo Komeito - dovrebbero assicurarsi almeno 70 dei 121 seggi in palio alla Camera dei Consiglieri. Al contrario, il Partito Democratico del Giappone (DPJ) di centro-sinistra sembra essere avviato ad incassare una nuova pesantissima batosta, essendo accreditato di meno della metà dei 44 seggi attualmente detenuti e messi in palio domenica.

La metà dei seggi totali (242) della camera alta del Parlamento di Tokyo viene rinnovata ogni tre anni. Nel voto del 2010, il DPJ allora al governo aveva perso terreno rispetto a tre anni prima, impedendo però ai liberal democratici di conquistare la maggioranza e mantenendo, dopo il passaggio di consegne al governo a fine 2012, la facoltà di ostacolare l’avanzamento della legislazione approvata dalla camera bassa.

A determinare il praticamente certo successo di Abe e del suo partito nelle elezioni del 21 luglio sarà soprattutto la persistente ostilità nutrita dalla maggioranza dei giapponesi per il DPJ. Quest’ultimo partito, infatti, dopo il trionfo nel voto del 2009, aveva mancato tutte le principali promesse di cambiamento, abbandonando ben presto le politiche di spesa prospettate in campagna elettorale, così come i tentativi di prendere relativamente le distanze dagli Stati Uniti e operare un certo ravvicinamento alla Cina.

Inoltre, il governo Abe potrà beneficiare di alcuni segnali di ripresa economica nel paese dopo due decenni di stagnazione e l’ulteriore battuta d’arresto seguita allo tsunami e al conseguente disastro nucleare del 2011.
Questo artificioso e, con ogni probabilità, momentaneo successo sarebbe dovuto ad una serie di misure propagandate dalla stampa locale e internazionale col nome di “Abenomics” che consistono sostanzialmente nell’immissione di denaro nel sistema finanziario grazie all’intervento della Banca centrale del Giappone e all’adozione di provvedimenti di libero mercato.

La politica monetaria simile al cosiddetto “quantitative easing” promosso da qualche anno dalla Fed statunitense ha determinato una svalutazione dello yen, favorendo sensibilmente le esportazioni giapponesi a discapito dei più immediati concorrenti (Cina, Corea del Sud, Taiwan). L’obiettivo della banca centrale è quello di giungere ad un livello di inflazione pari al 2%, così da interrompere la persistente tendenza deflattiva degli ultimi vent’anni.

Nonostante l’entusiasmo di commentatori e giornali economici, la ricetta Abe ha però finora portato qualche beneficio solo alle grandi compagnie esportatrici e ai detentori di titoli finanziari grazie all’ingente quantità di denaro immesso sui mercati. L’annunciato aumento generalizzato degli stipendi e dei consumi, al di là di quelli relativi ai beni di lusso, non sembra invece essersi ancora materializzato. Oltretutto, le politiche promosse dal governo liberal democratico includono una serie di “riforme” per flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro che avranno un impatto pesantissimo sulle fasce più basse della popolazione, prevedibilmente escluse dai presunti benefici generati dalle liberalizzazioni.

La scommessa di Abe, secondo alcuni, rischia anche di peggiorare ulteriormente i problemi del Giappone. Innanzitutto, il debito pubblico, superiore al 200% del PIL, potrebbe raggiungere livelli insostenibili se non venisse innescata una solida ripresa economica. Come ha spiegato mercoledì l’ex “trader” Satyajit Das sul sito di informazione economica MarketWatch, l’aggressiva politica monetaria della Banca centrale giapponese e la svalutazione dello yen potrebbero poi causare la fuga di capitali privati dal paese, alla ricerca di “interessi più alti e del mantenimento del potere d’acquisto”.

Le “Abenomics”, il cui eventuale fallimento avrebbe conseguenze ben oltre i confini del Giappone, rischiano anche di innescare una guerra di valute in Estremo Oriente e non solo. I paesi vicini, infatti, potrebbero mettere in atto misure monetarie simili dopo che la loro competitività è già stata colpita con una riduzione dell’export e dei tassi di crescita delle rispettive economie.

Dall’ambito economico, questi conflitti potrebbero facilmente sfociare in scontri militari, come è già apparso chiaro dal riesplodere di una serie di contese territoriali nella regione, in particolare tra Tokyo e Pechino attorno alle isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi), alimentate anche dalla “svolta” asiatica degli Stati Uniti in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese.

Non a caso, proprio l’impulso al militarismo è l’altra faccia del progetto del premier Abe per il suo paese, sottolineato in primo luogo dalla volontà di modificare la costituzione nipponica per abolire gli “articoli pacifisti”, quelli cioè che assegnano alle forze armate una funzione esclusivamente difensiva. Per raggiungere questo obiettivo, Abe intende cambiare le regole previste per apportare modifiche alla costituzione. Mentre ora qualsiasi emendamento deve essere approvato dai due terzi di entrambe le camere del parlamento e da un referendum popolare, secondo la proposta del governo basterebbe invece un voto della maggioranza semplice dei due rami della Dieta.

Per giustificare una simile svolta militarista tutt’altro che popolare tra i giapponesi, l’esecutivo liberal democratico sta mettendo in atto una strategia volta ad ingigantire le minacce esterne che graverebbero sul paese. L’annuale rapporto del ministero della Difesa giapponese, diffuso settimana scorsa, ha ad esempio elencato le crescenti minacce alla sicurezza nazionale del paese, a cominciare proprio dalle dispute territoriali con la Cina e dall’atteggiamento sempre più bellicoso della Corea del Nord.

L’insistenza su questi presunti pericoli che graverebbero sul Giappone si accompagna ad una retorica nazionalista sempre più marcata da parte del governo Abe ed ha portato al primo aumento del bilancio destinato alla difesa da 11 anni a questa parte, salito quest’anno a 46 miliardi di dollari.

Oltre a dipingere l’ascesa militare della Cina in termini particolarmente critici, il rapporto della Difesa mette in luce due punti fondamentali: la necessità di assegnare alle forze armate giapponesi la facoltà di intraprendere azioni militari “preventive” contro nemici stranieri e la maggiore cooperazione con l’alleato americano come punto fermo della strategia legata alla sicurezza nazionale.

I suggerimenti contenuti nel rapporto annuale sono stati ribaditi dal ministro della Difesa, Itsunori Onodera, in un’intervista rilasciata martedì al Wall Street Journal, nella quale sono state ricordate le questioni più delicate che i paesi dell’Estremo Oriente devono fronteggiare, senza peraltro notare come esse siano in gran parte aggravate proprio dall’atteggiamento sempre più aggressivo mostrato da Tokyo - così come da Washington - in questi ultimi mesi.

In ogni caso, le modifiche allo status delle forze armate giapponesi sono in gran parte rimaste fuori dal dibattito elettorale di questi giorni pur essendo allo studio di una speciale task force nominata dal premier Abe poco dopo il suo ritorno al potere nel dicembre scorso. Il nuovo approccio del governo liberal democratico ai temi della sicurezza nazionale verrà reso noto in maniera ufficiale entro la fine dell’anno, per poi concretizzarsi in un disegno di legge che, secondo la stampa locale, verrà discusso in parlamento nel 2014.

Le politiche messe in atto finora dal governo Abe sia in ambito economico che militare, insomma, subiranno un’accelerata dopo il voto di domenica, con il rischio tuttavia di vedere svanire in fretta il consenso attualmente goduto dal partito di maggioranza, così come di andare incontro ad un’esplosione del conflitto sociale sul fronte interno e di provocare la dura reazione dei paesi percepiti come rivali da un Giappone con rinnovate e pericolose ambizioni da grande potenza.

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