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20/06/2013

Verso le petromonarchie del Golfo gli investimenti stranieri

Le rivolte viste nel mondo arabo non hanno portato a un calo degli investimenti dall'estero, anzi. Ma si dirigono sempre piu' verso le economie gia' ricche, come quella saudita.

Sembrano già lontani i tempi in cui i venti della cosiddetta "primavera araba" soffiavano sulla regione MENA (Middle east and North Africa), scuotendo le economie delle nazioni direttamente o indirettamente coinvolte nelle proteste popolari. Nessuno sembrava voler più investire in paesi politicamente instabili, anzi: le imprese straniere facevano fagotto e scappavano dai focolai di rivolta. E invece, a più di due anni dalle prime insurrezioni popolari, e nonostante una forte instabilità politica di fondo - vedi Egitto, Tunisia e Libia - la situazione sembra essersi ribaltata: l'investimento diretto all'estero verso i paesi arabi è cresciuto del 9,8 per cento lo scorso anno rispetto al 2011, senza comunque superare i livelli del pre-rivoluzioni.

Ad annunciarlo è stata l'organizzazione nota come Dhaman (Arab Investment and Export Credit Guarantee Corporation) nel suo ultimo rapporto annuale, reso noto martedì scorso.

Con 47.1 miliardi di dollari (35.4 miliardi di euro) di investimenti stranieri rispetto ai 42.9 del 2011, 15 paesi su 20 dei 22 riuniti nella Lega Araba - tra cui anche Tunisia, Egitto e Libia - hanno visto le proprie economie rinvigorirsi dopo la caduta avvenuta dopo le rivoluzioni.

Gli unici dati a non essere stati presi in considerazione sono stati quelli sulla Siria, dilaniata dalla guerra civile, e sulle troppo piccole isole Comore.

Guidano la classifica le petromonarchie del Golfo, più "stabili" politicamente e ben avviate economicamente. Troneggia l'Arabia Saudita, con 12.2 miliardi di dollari provenienti dall'estero, che raccoglie da sola un quarto degli investimenti totali. Seguono gli Emirati Arabi con 9.6 miliardi di dollari, mentre terzo si piazza il piccolo Libano con 7.8 miliardi. Al quarto posto spunta invece l'Algeria, con 6.2 miliardi di dollari.

Dei paesi attraversati dalle rivoluzioni, l'Egitto si aggiudica il primo posto, con 2.8 miliardi di dollari di investimenti esteri nel 2012 rispetto ai 483 milioni del 2011. In Tunisia, essi sono aumentati del 68 per cento rispetto all'anno precedente raggiungendo quota 1.95 miliardi. In Libia hanno superato i 720 milioni di dollari, e perfino il poverissimo Yemen ne ha ricevuti quasi altrettanti.

Fonte

Alla presentazione numerica farebbe bene un po' d'analisi. Vediamo di metterci una pezza.
Il dato relativo ad Arabia Saudita ed Emirati non sorprende in quanto le petromonarchie del golfo già da tempo si sono connotate come approdo sicuro per il capitale internazionale. Merito del pugno di ferro con cui i regnanti dominano le rispettive società e della lungimiranza con cui stanno dirigendo i propri investimenti (da quelle parti l'hanno capito che il petrolio non sarà per sempre).
Per quanto riguarda invece i paesi più o meno attraversati dai venti primaverili del 2011, anche in questo caso le cifre non sono sorprendenti in quanto la stragrande maggioranza dei governi che si sono insediati a seguito delle sommosse popolari - più o meno pilotate - economicamente, cercano d'operare su posizioni assolutamente compatibili con i dettami del FMI che è il braccio armato con cui il capitale internazionale si spiana la strada verso nuove opportunità di profitto, prima fra tutte la permeazione nel settore infrastrutturale del paese di turno, da ricostruire o condurre sulla via del liberismo (vedasi privatizzazioni dei servizi ecc.).

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