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17/06/2013

Il Datagate e le illusioni dei tecno-entusiasti

Da anni vado sostenendo che la collaborazione fra stati (in particolare quello americano) e corporation (in particolare le società hi tech a stelle e strisce) si sta facendo sempre più stretta allo scopo di modificare l’architettura della Rete, per trasformarla in un micidiale strumento di dominio e controllo su utenti e cittadini.

Dopo lo scoppio dello scandalo che ha rivelato (grazie ad alcune gole profonde dell’amministrazione Usa) l’esistenza di PRISM, un sofisticato sistema di spionaggio in grado di archiviare e monitorare immani quantità di dati (telefonate, mail, conversazioni via chat e Skype, acquisti con carte di credito, ecc.) e gestito “in condominio” dalla National Security Agency, dai colossi nella Net Economy come Google, Microsoft, Facebook, Apple ed altri, e da operatori delle telecomunicazioni come Verizon, si spera che nessuno oserà più sostenere la tesi che gli interessi commerciali delle imprese funzionano da filtro protettivo contro l’invadenza dei governi e la loro avidità di dati personali dei cittadini.

È vero che il danno di immagine che i giganti di Silicon Valley stanno subendo in conseguenza di tali notizie è enorme; anche perché le loro smentite hanno perso ogni credibilità dopo che i “pentiti” hanno rivelato  che è stata costruita una sorta di “cassetta di sicurezza” dove le corporation depositano, ottemperando alle richieste delle agenzie governative in base a una procedura denominata FISA, i dati degli utenti, che vengono successivamente acquisiti e analizzati dai richiedenti.

Ma il danno di immagine non basta a scoraggiare simili comportamenti: in primo luogo, perché i vantaggi che il potere politico garantisce in cambio sono enormi (esenzioni fiscali, tutela delle tecnologie coperte da brevetti e copyright, ecc.), poi perché l’enorme concentrazione monopolistica, che nel giro di pochi anni ha messo nelle mani di pochissime imprese il controllo del mercato di prodotti e servizi digitali, fa sì che gli utenti non dispongano di alternative.

Così appare in tutta la sua evidenza l’imbecillità delle posizioni “tecno entusiaste” che, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, hanno celebrato ogni innovazione tecnologica come un automatico passo avanti verso livelli più avanzati di libertà e democrazia. Per anni ci siamo sentiti ripetere che imprese e utenti sono alleati contro lo strapotere della politica; che più le nuove tecnologie (e il “libero” mercato) penetrano nei Paesi totalitari, più questi ultimi si vedono costretti ad aprirsi a nuove forme di partecipazione democratica (vedi Primavera Araba), ecc.

Oggi capiamo che la penetrazione dell’uso dei social network in pubblici sempre più vasti significa anche e soprattutto aumento della capacità di dominio degli Stati Uniti sul mondo, che rinunciando al controllo sui nostri dati per affidarli alle “nuvole” (cioè ai server delle corporation) li abbiamo consegnati nelle mani di chi ci spia; che promuovere la diffusione degli “occhiali intelligenti” di Google significa aggiungere nuovi punti di osservazione a quelli che già ci scrutano attraverso i milioni di telecamere fisse installate nelle città, e gli esempi potrebbero continuare.

La scelta di fronte a cui ci troviamo è radicale: o accettiamo il discorso di Obama (“se volete sicurezza dovete ridurre drasticamente le vostre pretese di privacy”), oppure cominciamo a ragionare su come dotarci di strumenti tecnologici alternativi a quelli che ci vengono proposti dal Grande Fratello statale e dalle Grandi Sorelle private.

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