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16/05/2013

Slovenia: la bancarotta della porta accanto


La Slovenia è, in teoria, un paese facilissimo da spiegare. In mezzo a un’Europa orientale e centrale lacerata fra mille identità e divisa fra duemila minoranze, la Slovenia è un paese compatto, pieno soltanto di sloveni, forte nelle proprie certezze: e la principale è che, se si è obbedienti e laboriosi, si arriva da qualche parte, o quantomeno si costruisce un’esistenza – individuale e collettiva – salda e sicura.

Forse gli sloveni non avranno gli slanci imprevedibili e geniali degli altri slavi del Sud o del resto dei balcanici (il che d’altronde è anche normale, dato che, loro, balcanici non lo sono neanche), però sono gente affidabile, operosa, solida ma tutto sommato bella; come un pezzo d’artigianato artistico in legno. Ambito in cui quel popolo è maestro, vivendo in mezzo a boschi antichi e rigogliosi.

Se perciò bastasse la volontà o l’indole di un popolo, per spiegare un paese, nessuno dubiterebbe della prosperità e della tranquillità della Slovenia (che già sembrava destinata a un rassicurante benessere europeo quando faceva ancora parte della Jugoslavia). Eppure in questi giorni i nostri confinanti di Nordest sono sotto osservazione da parte della UE e dei “mercati”, e rischiano in sostanza – anzi, la cosa è data largamente per assodata – di fare la fine di Cipro: di essere cioè commissariati, o salvati, e di vedersi imporre un’austerità decisa dall’estero al posto di quella già messa in pratica dal governo di Lubiana.

Ma come si è arrivati a questo punto? In che modo la sonnolenta Slovenia degli artigiani, degli industriali, dei giovani perfettamente formati per l’età digitale si è ritrovata nella stessa situazione di un qualsiasi stato mediterraneo popolato da cicale e truffatori? È sicuramente vero, intendiamoci, come ha sottolineato un quotidiano economico locale (con ironia forse involontaria ma certamente raffinatissima) che “La Slovenia non è Cipro, condividono al massimo lo stesso destino“, ma è interessante capire come tale destino sia stato costruito.

Si può partire dalle cifre, ad esempio dalla più bassa di tutti. L’1% è la cifra simbolica delle proteste anti-crisi, da Occupy Wall Street in poi; anche se in Slovenia l’1% sarebbero ventimila persone, e – per quanto le élite siano ristrette per definizione – fa comunque un po’ ridere prendersela con la popolazione di Recanati. Il che non ha comunque impedito la formazione di un (relativamente) vasto movimento indignato e antipolitico, che ha ottenuto un notevole successo con le dimissioni del molto discusso Franc Kangler, sindaco di Maribor (la seconda città del paese), al cui posto è stato eletto il sociologo Andrej Fitravec, espressione di una società civile assai critica nei confronti della politica.

Ma 1% è anche il prelievo dalle buste paga, deciso in questi giorni dal nuovo governo di Alenka Bratušek nel tentativo di compiacere le istituzioni finanziarie europee e i mercati e di evitare la “soluzione cipriota”. Eppure, sempre per restare alle cifre, la situazione slovena non pare drammatica: il debito pubblico è al 64%, ma stava al 54 una settimana fa e al 48 un mese addietro. Ciononostante l’affidabilità del paese è stata appena valutata come “spazzatura” da Moody’s, e soprattutto le ultime aste di titoli nazionali si sono risolte in uno psicodramma e nell’esplosione fuori controllo dello spread.

Allora le cause della crisi sono da cercare al di fuori dei meri numeri, che sembrerebbero descrivere un paese in difficoltà ma non disperato.

Il problema, tuttavia, è che è difficile capire la Slovenia, paese lontano dai clamori e dalle piazzate balcaniche, e vicino semmai alla doppiezza e alla fumosità di quella Mitteleuropa di cui d’altronde è parte integrante1.



Qualche passo indietro. I due milioni di sloveni di oggi sono un popolo antichissimo, come si evince da una lingua assurdamente arcaica. Unici tra tutte le tribù slave dilagate nell’Alto Medioevo dal mare del Nord al Peloponneso, gli sloveni – chiusi nei propri boschi – hanno resistito alla controffensiva germanica, che non li ha respinti, ma ha finito per integrarli.

Cosicché, un po’ discosta rispetto alle carneficine tedesche, ungheresi e balcaniche e in parte protetta da esse, la nazione slovena ha condiviso tutta la parabola dell’Austria e degli Asburgo; per secoli la silente e buona gente di Lubiana e della Carniola ha incarnato il mito dell’impero giallonero che per Roth viveva non nelle città, ma nelle proprie periferie. Eppure, questo popolo antichissimo non ha mai avuto uno stato; il primo riconoscimento nazionale l’ha avuto di fatto nel 1918, come socio di minoranza di croati e serbi nella prima Jugoslavia. Ma uno stato balcanico non è e non poteva essere la casa degli sloveni.

Così, nel 1991, è finalmente arrivata l’indipendenza: ma questo paese appena neonato si è avvicinato all’Europa non con l’energia e l’irruenza dei giovani, bensì con la placida calma e la bonaria certezza di un anziano centroeuropeo; quella che, de facto, è la condizione storica degli sloveni. Gente che peraltro non ha mai mostrato l’impazienza di entrare in Europa tipica dei croati o degli albanesi, per il semplice motivo che – per storia e geografia – gli sloveni in Europa ci sono da sempre.

In termini economici, questa condizione duplice ha portato a un compromesso fra istanze liberali e liberiste e prudente socialismo di mercato. Si è privatizzato molto (soprattutto, e in gran fretta, l’edilizia sociale negli anni Novanta), ma lo si è fatto privilegiando “l’interesse nazionale”, appena scoperto o riscoperto dagli sloveni; solo che in troppi casi l’interesse nazionale ha coinciso (il vizio è diffuso) con clientelismi e favori a gente forse troppo vicina alle élite politiche pre- e post-indipendenza. D’altra parte, questo corporativismo (a voler essere buoni), che è certamente uno dei peccati originali della nuova Slovenia, è stato bilanciato nell’ultimo decennio da un mercato finanziario privo di lacci e controlli e da un boom immobiliare anche troppo aperto, questo sì, agli interessi e alle partecipazioni di partner stranieri più o meno affidabili.

Insomma, anche la Slovenia ha da rimproverare le proprie banche, tanto per cambiare; ma va comunque notato che, di nuovo, la questione è complessa, dato che proprio dalla potenza e solidità della propria banca (la Ljubljanska) la Slovenia aveva ottenuto enormi vantaggi ai tempi della Jugoslavia e dopo. Alcuni dei quali, stando soprattutto alle proteste croate durate due decenni, erano peraltro sortiti da un utilizzo improprio e troppo “nazionale” di risorse che venivano invece un po’ da tutta la Federazione (la querelle si è grossomodo chiusa qualche mese fa).

Non c’è dunque un solo colpevole della crisi; anzi, la situazione slovena è sorprendente e imbarazzante. Sorprendente, perché i cosiddetti fondamentali, ma anche la storia economica del paese, l’attitudine al lavoro degli sloveni, tutto questo pareva metterli al sicuro da un crac di questo genere; e imbarazzante per l’Europa, perché la Slovenia non è una tigre di carta che ha cavalcato con furbizia onde speculative, ma è un rispettabile e solido membro della comunità internazionale che non ha mai mostrato comportamenti imprudenti e, se lo ha fatto, non è si è certamente spinto più in là di quanto facessero gli altri paesi della UE senza che le istituzioni di controllo vi trovassero nulla da ridire.

Si può dire anzi, senza tema di smentite, che la Slovenia è stata a lungo il fiore all’occhiello dell’Europa: l’ultimo arrivato che però si applica con grande diligenza, ottiene risultati notevoli, mostra grande maturità democratica e sociale e non si permette certo, come quegli altri buzzurri balcanici, di allevare opinioni pubbliche bellicose e arretrate e sempre pronte a trovare nemici. No: la Slovenia, anche più dei propri vicini di più celebrata civiltà (Austria e Ungheria) ha sempre mantenuto un aplomb perfetto e un comportamento educato e integro degno di un grande paese europeo come lo immaginano, per dire, in Texas.

Eppure la Slovenia è anche, in una certa misura, il segreto inconfessabile dell’Europa e in particolare della sua locomotiva tedesca. Non è stata forse l’accelerazione tedesca, nel 1991 (quando le sovranità statali erano ancora sacre), a dare il via libera alla secessione delle repubbliche settentrionali della Jugoslavia? E se per la Slovenia la cosa era filata via relativamente liscia – beato quel popolo che non ha minoranze -, non si può dire lo stesso per la Croazia, la cui proclamazione di indipendenza aveva dato via alla lunga e buia pagina delle guerre civili jugoslave. Chissà, forse qualcuno avrà rimuginato su quei fatti ormai abbastanza lontani, e sul curioso modo di ripresentarsi e tornare alla mente che è tipico della Storia.

Ad ogni modo, quale che sia la causa prima della crisi, il futuro della Slovenia si presenta fosco, dato che nessuno pare possedere le chiavi per l’uscita dalla crisi. Questa, tuttavia, è purtroppo una dinamica ormai familiare e consueta; quello che soprattutto è oscuro, invece, è a cosa serva a questo punto l’Europa. Niente in contrario alla disciplina finanziaria e all’imposizione di misure per garantirla; è evidente che un mercato unico si basa anche su una serie di regole che vanno equamente osservate da tutti.

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