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14/02/2013

Irriducibili a cosa?

Una risposta a Benedetta Tobagi… 1/continua


In nome di quale presente abbiamo il diritto di giudicare il nostro passato?

Roland Barthes
di Paolo Persichetti

C’è una parola che mette molta paura: quella di «irriducibile». Si è scritto tanto attorno a questo termine nei giorni scorsi, dopo la morte e la cerimonia di saluto a Prospero Gallinari, momento in cui i cosiddetti irriducibili, cioè quelli che sono stati descritti come gli indefessi, gli ostinati e gli irremovibili, altrimenti detti «coloro che non hanno mai fatto i conti col passato», e dunque per questo ritenuti ottusi e tetragoni testimoni della stagione rivoluzionaria degli anni '70, sarebbero sorprendentemente riemersi – cosa ancor più preoccupante – in folta compagnia.
Ne ha scritto su Repubblica in due occasioni, il 15 (qui) e il 24 gennaio (qui), Benedetta Tobagi, di fresca nomina al cda della Rai e proiettata, forse un po’ troppo in fretta, nel ruolo di amministratrice della memoria di quel decennio.

Irriducibile: un termine estraneo al lessico della lotta armata
Eppure contrariamente a quanto si è scritto in passato e si continua a scrivere, l
a parola «irriducibile» non appartiene al lessico brigatista. La diffusione di questa etichettatura ha contribuito non poco a fornire una immagine distorta della cultura politica dei militanti che hanno preso parte alla lotta armata. Proviamo a vedere perché.
Il lemma, in realtà, ha svolto una funzione centrale nel vocabolario dell’emergenza giudiziaria e penitenziaria. E’ un conio dello stato di eccezione italiano, impiegato dalla magistratura, utilizzato dai corpi di polizia e dall’apparato carcerario e, in seguito, divenuto di uso comune nel mondo dei media per classificare i prigionieri politici che hanno rifiutato di sottomettersi alla legislazione premiale e differenziale: la delazione remunerata dei collaboratori di giustizia (i cosiddetti “pentiti”) e l’abiura, anch’essa remunerata, la cosiddetta dissociazione.
Irriducibile, era e resta, chi ha rifiutato di accedere a queste due categorie. Un’area, quella della «irriducibilità», che include figure e generazioni molto diverse tra loro per opinioni politiche e atteggiamenti (sul perdurare o meno dello scontro armato e sull’analisi della società).
Per intenderci: sono considerati irriducibili i cosidetti “continuisti”, cioè coloro che hanno mantenuto ferma la convinzione nel proseguimento della lotta armata anche di fronte ai radicali mutamenti sociali e geopolitici intervenuti nel corso degli anni '80, al pari di quelli che si sono pronunciati in favore di una discontinuità, di un oltrepassamento dell’esperienza armata, o di quelli che in forme varie, anche meno visibili pubblicamente, hanno ritenuto conclusa l’esperienza della lotta armata avviando altri percorsi non più, o non sempre, politici, ricollocando il loro impegno – quando hanno potuto – su terreni civili, sociali e culturali.
Ciò che accomuna quest’area pluriversa, etichettata comunque come “irriducibile”, è dunque il rifiuto delle logiche inquisitoriali dell’emergenza giudiziaria. Nulla a che vedere con lo stereotipo riportato da Benedetta Tobagi nei suoi articoli (ma anche da altri), ovvero: «significato storico assunto dall’aggettivo, sostantivato per designare il terrorista o detenuto politico “che non recede dalle proprie convinzioni”». Lì dove per «recedere» – è bene sottolinearlo – non si deve intendere una libera azione riflessiva, una disposizione dell’animo, un afflato della coscienza, un soprassalto dello spirito, che potrebbe ispirare e accompagnare nobili percorsi di distacco interiore, momenti d’autocritica assolutamente disinteressati, autonomi e genuini, ma l’adesione ai dispositivi di assoggettamento previsti in sede penale e penitenziaria, attraverso una lunga serie di decreti e dispositivi legislativi di tipo premiale, varati tra il 1979 e il 1987, che introducendo trattamenti differenziali hanno incrinato il principio di eguaglianza di fronte alla legge e trasformato l’inchiesta, il processo e il carcere, da sedi di verifica e ricerca della prova o di svolgimento della pena, in mercati delle indulgenze, fiere dello scambio politico, luoghi dove si riceve un po’ di futuro in cambio del proprio passato. Qualcosa di assolutamente opposto ad ogni storicizzazione o esercizio libero ed autonomo della critica.
Diceva a tale proposito Jeremy Bentham che «la sfera della ricompensa è l’ultimo asilo dove si trincera il potere arbitrario».
Se ancora le parole hanno un senso, in questa epoca dove ormai il senso sembra aver perso ogni parola, la nozione di irriducibilità dovrebbe designare l’emergenza giudiziaria, il protrarsi ad oltre tre decenni di distanza degli irrisolti penali, degli ergastoli, degli esiliati, gli ukaze contro la parola degli ex militanti di allora. Irriducibile è la memoria giudiziaria che dopo tanti decenni ha sovrapposto all’oblio penale l’oblio dei fatti sociali e alla memoria storica la memoria giudiziaria.
«Negli ultimi dieci anni l’Italia aveva subito la più radicale trasformazione socio-economica dal dopoguerra ed erano cambiati sia i soggetti sociali e politici delle lotte da cui erano nate le Br, sia i presupposti della nostra strategia rivoluzionaria. Prendere atto di queste trasformazioni era una necessità storica che valeva per me, quanto per chi desiderava seriamente interrogarsi sul significato di ciò che era successo. A quel punto la parola “irriducibile” non connotava nessuna realtà sociale. Era un trucco del linguaggio. A cosa si sarebbe dovuti essere “riducibili”? Secondo il potere, alla dissociazione: nel senso che non si era più irriducibili se si diventava dissociati!».
Renato Curcio (intervistato da Mario Scialoja), A viso aperto, Mondadori 1993, p. 209
«L’abiura è come un’eco lunga, un discorso che ricomincia sempre dallo stesso punto, un rimbombo senza fine. Essa nasconde, non svela. Dirò una cosa che vorrei provocasse quelli della mia generazione. Quel che è avvenuto negli anni Settanta è roba nostra, non puoi glissare. I dissociati glissano. Mentre sarebbe stato possibile – difficile ma possibile – fare tutti assieme una riflessione vera, completa, senza rimozioni, dichiarando che era finita. Perché il progetto era realmente fallito, questo era chiaro, anche a quelli che continuarono non potendo far altro.[...] Fare questo dibattito sul serio e fino in fondo significava assumersi la responsabilità politica di tutto mentre si chiudeva tutto. E quanti erano disposti a farlo? Fra di noi e fuori di noi? Appena si fosse arrivati a una discussione seria anche sul modo con il quale si reagì al fenomeno Br e lo si combatté, coloro che non vogliono fare i conti con quegli anni, avrebbero inchiodato la discussione con i soliti falsi misteri che servono a impedire che se ne parli. Avrebbero fatto e detto di tutto contro di noi – nella sconfitta, ci ricorda la scuola dei cinici, chi ha perso non solo ha perso, ma deve essere cancellato, deformato, annichilito».
Mario Moretti (intervisatto da Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate rosse, una storia italiana, Abanasi 1° edizione 1994, pp, 252 e 254
«Siamo al culto della delazione, alla canonizzazione dei collaboratori di giustizia. E in parte è colpa mia. Le confesso una cosa: ogni sera io recito un atto di dolore per aver contribuito, negli anni Settanta, alla diffusione di questo modo di fare giustizia [...] Sa, sto pensando di presentare un disegno di legge per cambiare le cose: prendo le regole dell’Inquisizione di Torquemada e le traduco in italiano moderno. Ci sono più garanzie in quelle che nel nostro codice di procedura penale».
Francesco Cossiga, La Stampa, 19 aprile 1995
Che cosa vuol dire irriducibile?
Il primo significato suggerito dal vocabolario online della Treccani (qui) e ripreso anche dalla Tobagi nel suo articolo è, «Che non si può ridurre, cioè rimpiccolire, restringere, ricondurre a una forma più semplice». Altrimenti detto schiacciare. D’altronde l’etimologia è chiara: la particella prefisso “ir”, davanti a parole che inizano con “r” – spiega il dizionario etimologico – assume valore di negazione del significato positivo del termine corrispondente all’interno del quale è comunque ricompreso, a meno che il lemma non abbia assunto una sua rilevanza ed autonomia significative. Esempio: raggiungibile/irraggiungibile; razionale/irrazionale; resistibile/irresistibile, riguardoso/irriguardoso; rilevante/irrilevante.
Per esser chiari: irriducibile vuol dire «non riducibile», dunque che non può essere o non si lascia ridimensionare, che non può essere semplificato, banalizzato, appiattito, livellato. Per estensione: omologato, adattato, limitato, forzato, formattato, obbligato, impoverito.
E siccome le parole hanno senso solo se calate nel contesto in cui sono state coniate per fornire una definizione, in carcere irriducibile è colui che non si lascia piegare dalla disciplina punitiva dell’emergenza, è colui che resiste e oppone al tentativo di riduzione, di adattamento e formattazione ai valori dominanti, all’omologazione della norma, la ricchezza della propria esperienza, della storia dai cui proviene. In questo contesto irriducibile è sinonimo di complessità, estensione, espansione, molteplicità, stratificazione, sfumatura.
Irriducibile è quando ti si vuole imporre una forma e tu ti opponi perché ne contieni mille altre. Non a caso Benedetta Tobagi per contestare una cosa del genere è costretta a definire l’irriducibile, colui che «non depone l’armamentario ideologico per riconoscersi nei principi dello Stato costituzionale», come se lo Stato costituzionale – stando a quelli che sono i suoi postulati teorici – possa conciliarsi con il suo contrario, un assoluto etico a cui tutti devono uniformarsi, dove non c’è spazio sociale o pubblico autonomo e separato dallo spazio statale e quindi tutto ciò che è autonomia, figuriamoci critica, diventa immediatamente una forma di sovversione dell’etica istituzionale costituita.
Di irriducibili è piena la storia, pensate a Galileo.
«La storia, si è già detto, è stata sempre quella narrata dai vincitori. Bisognerebbe aggiungere e precisare che i suoi scrittori sono spesso reclutati fra gli sconfitti o i trasfughi, i quali in tal modo si trasformano in uomini vinti. A quanto pare, la lezione fornita dall’uomo vinto è alla base della nostra memoria. E oggi, per tanti aspetti, è come se ci trovassimo in una situazione fondativa, analoga a quella dei primi secoli della nostra era.
La storia degli eretici, per esempio, ci è stata raccontata soprattutto dai loro grandi nemici, gli eresiologi, e sulla visione di costoro si è fondata l’ortodossia; ma bisogna ricordare che la maggior parte di questi eresiologi furono degli eretici o dei pagani pentiti come l’ex manicheo sant’Agostino, così diventato potente vescovo di Cartagine, o l’ex pagano sant’Ireneo vescovo di Lione, autore di un testo – Contro le eresie – d’importanza fondamentale per la storia dell’ortodossia cristiana. Si potrà ricordare lo storico degli ebrei Flavio Giuseppe. Egli e i suoi compagni rimasero accerchiati dai romani e decisero di suicidarsi per non consegnarsi al nemico. Per ultimo rimase proprio Giuseppe; cambiò idea, passò dalla parte dei romani e si mise a scrivere la storia degli ebrei… per i romani, benignamente trattato dall’imperatore Vespasiano e aggiungendosi il nome Flavio».

Vincenzo Guagliardo, Dei dolori e delle pene, Sensibili alle foglie 1997, p. 89

Fare i conti?
Una delle caratteristiche dell’irriducibile, scrive Benedetta Tobagi, è la sua incapacità di saper fare i conti col passato.
Ma cosa vuol dire “fare i conti” ? Un giurista tedesco, Helmut Quaritsch (Giustizia politica, Giuffré 1995) lo spiegava all’incirca in questo modo:

«Fare i conti» va inteso come espressione che contiene un concetto comprensivo che include in sé la nozione di elaborazione e di superamento del passato. Processo non conclusivo, lì dove esso è legato al problema della ricerca storica, della coscienza della memoria, ma anche chiusura lì dove la riflessione giuridica configura la presenza di una componente formale di decisione e procedura del superamento del passato che si esprime nelle sentenze ma anche nelle amnistie».
continua/1

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