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15/02/2013

Crisi di civiltà

Se si rompe la continuità anche rituale di un'istituzione bimillenaria, come la Chiesa, l'ultima cosa da fare è cercare spiegazioni banalmente contingenti, “politiche”, sguazzando nei meandri dei complotti grandi e piccoli che da sempre agitano i corridoi dei palazzi, inclusi quelli del Vaticano.




L'”abdicazione” di Benedetto XVI è un evento di portata storica per l'Occidente. Qualsiasi sottovalutazione è un'occasione persa per riflettere sul crinale epocale in cui si trova l'umanità intera, determinando anche le forme della lotta di classe.

Non siamo “vaticanisti”, non ci interessa neppure soffermarci – come molti hanno fatto in queste ore – sulle motivazioni individuali di Joseph Ratzinger, perché a quel livello di responsabilità l'”io” è l'ultimo dei problemi.

Ma è anche il punto terminale dove si scaricano le tensioni, le contraddizioni, le fratture di un mondo in disfacimento, cui un'Istituzione globale – la chiesa cattolica – non sa più dar risposta. Siamo materialisti e atei, è noto. Proprio per questo dobbiamo vedere nel gesto del papa la risultante di processi planetari innescati da dinamiche che con “il divino” hanno poco a che fare.

Un segno di crisi, insomma.


Le divisioni e gli scontri – ammessi dalle stesse parole di Ratzinger – sono la fisiologia di un'istituzione di lunga durata, non la causa della sua crisi. Facciamo un esempio banale: un Parlamento è il luogo del conflitto politico che deve partorire legislazione. Lì dentro ci deve essere scontro tra parti e visioni diverse, perfino opposte. È costruito per questo. Ma quando il conflitto supera il livello della governabilità, “esonda” il confine, allora mette a rischio la continuità stessa dell'istituzione. Ciò accade non perché i “gruppi di interesse organizzati” e i piccoli uomini che li rappresentano abbiano “perso” consapevolezza istituzionale, ma perché quegli interessi sono diventati incomponibili.

Tornando alla Chiesa cattolica – che ha una vita ben superiore a quella di qualsiasi parlamento per la buona ragione che il suo “comporre interessi” si svolge (o dovrebbe svolgersi) su un piano decisamente più alto, metastorico se non metafisico – la frattura incomponibile riguarda decisamente le risposte che da un'istituzione così sarebbe giusto attendersi di fronte a una palese crisi di civiltà.

La Chiesa ne ha vissute e superate altre, in 2.000 anni. Da quando è diventata “potere”, uscendo dalle catacombe, ha superato lo scisma d'Oriente (Costantinopoli e gli ortodossi), arrivando a rappresentare fisicamente, per secoli, sia l'istituzione che conservava e riproduceva la conoscenza, sia il principio di legittimazione del potere terreno (le monarchie assolute). Un ruolo che ne ha fatto storicamente la “sintesi” della civiltà occidentale, fino all'apparire del capitalismo.

La nascita delle università le sottrasse il monopolio sulla conoscenza, aprendo la strada a nuove scienze e nuovi principi, apertamente negativi dei principi del “dogma”.

Lo “scisma d'Occidente” – il protestantesimo nelle sue varie scuole – è stato contemporaneamente la condizione per l'affermarsi dell'”iniziativa privata” come motore avido della crescita economica e la legittimazione di una relazione “privatistica” tra il singolo e la divinità. Una “riforma” religiosa che tagliava al tempo stesso la mediazione della gerarchia e l'infrangibilità della “verità rivelata”, entrambe fisicamente rappresentate dal Pontefice (“il ponte” tra terra e cielo).

Di lì in poi, tranne che nei paesi europei latini, l'espansione della “parola di dio” in versione cattolica è avvenuta quasi soltanto tra i popoli colonizzati.

Ma la “secolarizzazione”, il “materialismo del capitale”, si è imposto come principio formatore della società, plasmandola e ridisegnandola a ogni rivoluzione industriale. E l'Istituzione bimillenaria, abituata ad accompagnare i cambiamenti fidando nella superiorità del “trascendente” rispetto alla contingenza destinata a sparire presto, ha cominciato ad arrancare. Come si può sintetizzare in un unico messaggio la speranza dei molti e l'avidità dei pochi senza scontentare nessuno? Come si può, quando un tweet proveniente da “dio in persona” può esser svillaneggiato dall'ultimo alcolizzato in pochi secondi, in qualunque parte del mondo?


Le categorie millenarie che hanno fin qui permesso alla Chiesa cattolica di interpretare i cambiamenti senza – quasi – subirne gli effetti, mostravano i limiti già 50 anni fa. Il Concilio del 1962 provò a interpretare il passaggio sbilanciando l'istituzione a favore degli “ultimi”, aprendo le porte alla critica dei “primi”, ovvero del capitale. Ma gli anni '80 hanno ripristinato la Chiesa come “identità di fede” e stampella del potere terreno, impegnandola come punta di lancia contro “l'ateismo comunista”, personalizzato nel declinante “socialismo reale”.

Missione compiuta con successo e immediata fine dell'utilità della Chiesa nel mondo del capitale senza progetto. Come un Noriega o un Saddam, messa da un lato e marginalizzata senza nemmeno un “grazie”.

Che in questo corpo improvvisamente “desacralizzato” e senza ruolo si aprano contraddizioni è fisiologico. Le dimissioni di Ratzinger, però indicano anche il rischio che queste contraddizioni non trovino più soluzioni efficaci (al di là dei cerotti e dei placebo; dei “papi di transizione”, insomma).

Indicano una difficoltà che investe – com'è giusto che sia, per il ruolo che la Chiesa ha avuto – tutto l'Occidente. Un mondo che vive in un “eterno presente” e non riesce più nemmeno a vedere la propria crisi. Al contrario di un filosofo diventato papa e quindi costretto a verificare sul campo che le proprie amate categorie non interpretano più il mondo e tanto meno lo ricompongono in un disegno “divino”.

Un segno di crisi, dunque. Non solo della Chiesa, ma di questa civiltà.

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