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19/01/2013

Storia di una fabbrica recuperata

Luigi Zanon, un imprenditore italiano, aprì una fabbrica di ceramica a Neuquén, in Patagonia, nel 1979. Era un uomo noto in Argentina, la sua famiglia aveva messo su a Recoleta, a quattro passi dal cimitero dove riposa Evita, il parco dei divertimenti più grande del continente: l’Italpark. Zanon era un tipo sciovinista, nel logo della fabbrica spiccava il tricolore e sia gli ottovolanti che i forni dove cuocere la ceramica erano made in Italy. Nei primi anni la fabbrica ottenne enormi finanziamenti pubblici e Zanon, grande amico del regime, non faceva altro che ringraziare il dittatore Videla per aver reso l’Argentina un paradiso per investire. Se Zanon faceva la bella vita lo stesso non si poteva dire dei suoi operai ai quali toccava sgobbare in fabbrica 16 ore al giorno senza diritti sicurezza.

Esiste al mondo qualcosa che sia peggio di un lavoro alienante? Certamente: perderlo.

Gli anni ’90 non iniziarono troppo bene per Zanon e per l’Argentina. Mentre Brehme trasformava un rigore piuttosto dubbio facendo impazzire di gioia la Germania appena riunificata e disperare Maradona e compagni, Roxana Celia Alaimo, una ragazzina di 15 anni, perdeva la vita su una giostra dell’Italpark che da anni non riceveva manutenzione. Il parco venne chiuso immediatamente ma la fabbrica di Neuquén, anch’essa teatro di morti assurde tra gli operai, non venne neppure ispezionata.

Nel 1994 mentre il Presidente Menem obbediva agli ordini di Washington inaugurando la stagione delle privatizzazioni, Jorge Sobisch, Governatore della Provincia di Neuquén, andava controtendenza finanziando la fabbrica Zanon con 5 milioni di dollari: quattrini pubblici che il Patron si mise in tasca bellamente al posto di reinvestirli in innovazione dando di fatto il via allo smantellamento dell’industria. Cominciò a licenziare, a vendere macchinari, a dismettere intere aree della fabbrica. «C’è crisi» ripeteva Zanon, «non posso fare diversamente».

Gli operai avevano paura ma non sapevano come muoversi, erano soli, non c’era un sindacato, non avevano mai scioperato, neppure si conoscevano tra loro. Lavorare a ritmi massacranti e a piccoli gruppi non aveva mai dato loro modo di riunirsi, ma un giorno venne presa una decisione che avrebbe fatto la storia: giocare a pallone! Fu un campionato di calcio l’inizio della rivoluzione.

Ogni domenica gli operai iniziarono a darsi appuntamento su un campetto di periferia. Sudavano, litigavano per un fuorigioco, si insultavano, insomma diventavano amici e quando nel 2000 un altro ragazzo perse la vita in fabbrica gli operai della Zanon erano diventati un gruppo e seppero reagire. Daniel, così si chiamava il ragazzo, ebbe un attacco cardiaco appena entrato in fabbrica e venne portato in infermeria, gli fu dato l’ossigeno ma la bombola era vuota. La morte di Daniel mostrò con chiarezza quanto per il Patron valessero le vite dei suoi operai.

Iniziarono gli scioperi, le assemblee, le rivendicazioni, gli operai della Zanon vinsero le elezioni del sindacato ceramista della provincia. Il Patron rispose con nuovi licenziamenti e smettendo di pagare gli stipendi fino a che, nel 2001, decise di chiudere definitivamente la fabbrica.

Quando gli operai trovarono i cancelli sbarrati restarono sbigottiti, da mesi senza stipendio e ora senza lavoro.

«E adesso cosa facciamo?» disse qualcuno.

«E che possiamo fare, entriamo e lavoriamo».

Sfondarono i cancelli e fecero la sola cosa che sapevano fare: produrre ceramica.

Duecento lavoratori che per una vita avevano ubbidito al padrone, pieni di paura e inesperti nella gestione di una fabbrica scelsero di rischiare. Mettere in moto i forni autonomamente era un affronto non soltanto a Zanon ma ad un intero sistema e per questo gli operai vennero ostacolati in ogni modo. Spinti da Zanon i fornitori smisero di consegnare le materie prime, la moglie di un operaio venne rapita e picchiata a sangue, gli ordini di sfratto si susseguirono. Furono mesi complicati per gli operai, gli fu persino interdetto l’utilizzo del nome Zanon per vendere la ceramica, tuttavia, reagirono colpo su colpo. Fecero delle collette per comprare i materiali (sabbia e argilla gli venne regalata da gruppi di indigeni Mapuche, anche loro in lotta per la sopravvivenza), istituirono un sistema di sicurezza interna per evitare sabotaggi e crearono una nuova cooperativa, la FASINPAT (Fabrica Sin Patrones – Fabbrica Senza Padroni). Nel 2003 il sistema si arrabbiò sul serio. Centinaia di poliziotti arrivarono in fabbrica per cacciare gli “abusivi” ma gli abitanti di Neuquén si mossero a sostegno degli operai. Cinquemila cittadini circondarono la fabbrica facendo da scudo, c’erano vecchi e bambini, uomini sulle carrozzelle, tutti uniti per dire basta alle ingiustizie. La polizia fu costretta al ritiro.

Oggi la FASINPAT, o Ceramica Zanon, esiste ancora, nessuno è riuscito a sfrattare gli operai. Il Patron diceva che non sarebbero stati in grado di fare nulla da soli, che avrebbero fatto esplodere i forni, che senza esperienza la fabbrica avrebbe chiuso in un anno. Non è andata così. In 12 anni di controllo operaio la produzione è aumentata, gli incidenti sul lavoro sono scesi del 95% e sono stati assunti oltre 200 nuovi lavoratori tra in quali anche la mamma di Daniel. Gli operai della Zanon non si limitano soltanto alla produzione, non si sono dimenticati della solidarietà alla popolazione e hanno a cuore il benessere dell’intera società. Con parte dei ricavi della fabbrica hanno costruito un centro di salute in un quartiere disagiato della città, regalano piastrelle alle famiglie che non possono permettersele, realizzano visite guidate in fabbrica con i bimbi delle scuole della provincia per mostrargli come si produce la ceramica e come si può cambiate il futuro. Ma non è tutto oro quello che luccica. Nei giorni in cui visitai la fabbrica venni invitato da un gruppo di operai che facevano il turno di notte a mangiare un asado. Avevano improvvisato una graticola tra due enormi macchine che pressavano l’argilla. Bevemmo fernet e cola, mangiammo la carne più buona del mondo e parlammo a lungo. Un ragazzo mi disse che il controllo operaio significava avere maggiori responsabilità ma stesso stipendio, che se era vero che si sentivano liberi era altrettanto vero che dovevano pensare a un mucchio di altre cose oltre al lavoro. «A questo punto era meglio sotto padrone» mi confidò alla fine della chiacchierata. Durante una riunione del sindacato ceramista ascoltai una frase che mi colpì molto: «lo schiavo difende il padrone perché non conosce altra condizione». E’ vero, tuttavia anche chi ha conosciuto una condizione differente a volte preferisce la tranquillità dell’assenza dell’impegno. La mediocrità può essere una strada comoda. Una delle cuoche della fabbrica mi disse che finalmente poteva esprimere le sue idee, che in assemblea veniva ascoltata e che questa era la ricchezza più grande del controllo operaio. Già, una ricchezza ma anche un peso, una responsabilità enorme. Essere protagonisti del proprio futuro fa tremendamente paura, la libertà fa paura, averci a che fare è una lotta continua, uno sforzo sovrumano. Essere liberi significa non essere passivi, significa prendere in mano la nostra vita. E’ tosta ma vale la pena provarci.

Non ho raccolto questa storia perché penso che le proposte che ci arrivano dal Latino America vadano applicate tout court anche in Europa. Ognuno ha i propri tempi, il proprio percorso e le proprie peculiarità. Tuttavia la vittoria degli operai della Zanon (nel 2009 il governo di Neuquén gli diede ragione e firmò un documento rivoluzionario che sanciva l’espropriazione della fabbrica al vecchio Zanon e la consegna alla cooperativa FASINPAT) dimostra quanto sia necessario mettere in discussione il pensiero dominante, quello che continua a ripeterci che l’unico modo per affrontare la crisi sia tagliare lo stato sociale, che una fabbrica non può essere gestita dagli operai e che per fare politica occorra essere dei professionisti. Io non ci credo più al pensiero dominante. Non li ascolto più i fatalisti che mi spiegano che un progetto non può essere realizzato perché nessuno ci è mai riuscito e che cambiare il mondo è un’illusione. Gli operai della Zanon ce l’hanno fatta, sono i padroni di una grande fabbrica, sono gli artefici del loro destino. E’ stata dura, come scalare una montagna, ma se ci pensate bene per farlo basta mettere un piede dopo l’altro.

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