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08/01/2013

Ingroia fa fuggire gli elettori o li attira?

Diciamolo chiaro: se l’operazione Ingroia aveva una razionalità politica basata sull’impatto televisivo del personaggio, qualcosa non sta funzionando. I sondaggi, ci riferiamo all’ultimo di Ipr-Marketing e di Tecnè (che cura le rilevazioni per Sky), riportano un inizio gennaio piuttosto difficile per il magistrato in aspettativa. Si passa da una media complessiva dei partiti che oggi appoggiano Rivoluzione Civile,  rilevata in autunno tra il 9 e il 10 per cento ad una, con la sola Lista Ingroia, che nei primi giorni di gennaio oscilla tra il 2,4 e il 3,5 per cento. Al di sotto della soglia di sbarramento elettorale come la sinistra arcobaleno del 2008. E se è vero che le rilevazioni di settembre-ottobre non tenevano conto del successivo tracollo Idv, dovuto alla caduta di credibilità del brand Di Pietro, è altrettanto vero che Ingroia era stato chiamato proprio per rigenerare l’immagine dei diversi partiti che lo appoggiano.

E qui qualche considerazione sull’operazione Ingroia già la si può fare: al netto di una lista che appare soprattutto una scialuppa di salvataggio per quattro partiti, siamo di fronte ad un’operazione debole nella collocazione elettorale e nel linguaggio. E se il primo brutto errore poteva essere tatticamente rimediabile, l’equilibrio tra partiti e movimenti interessa poco al grosso dell’elettorato (quello che porta milioni di voti), gli altri due sembrano essere più gravi.

Infatti una collocazione elettorale a sinistra del Pd, che non solo prenda nettamente distanza dal partito democratico, ma che non si dichiari naturalmente alternativa al centrosinistra non ha forza d’attrazione elettorale. Perché lascia spazio alle dinamiche di “voto utile”, e alle correlate mitologie del condizionamento a sinistra del Pd, senza proporre qualcosa di nuovo e concreto. Perché non ha una capacità magnetica propria, un modo che rende indistinguibili dagli altri partiti. Fa anche riflettere quanto abbia fallito, in queste poche settimane, il linguaggio unificante scelto da Ingroia. Quello dell’epica della lotta alla mafia, dell’agenda di Borsellino e delle stragi del ’92-’93. Qui qualcuno non deve aver capito bene la differenza tra temi, comunque importanti, che alzano la tiratura del Fatto Quotidiano o l’audience di Servizio Pubblico e la costruzione di un linguaggio unificante che attira, a sinistra, milioni di elettori. Si è davvero confusa l’informazione e la narrazione mediale della politica con i processi di comunicazione che attivano un elettorato.

E cosa dire della continua dissociazione da Ingroia? Movimenti per l’acqua pubblica, quelli che hanno portato a vincere un referendum nazionale, No tav, teatri autogestiti.  Si tratta dell’ossatura dei movimenti di questi ultimi anni non di soggetti residuali.  Perdere contatto da questi soggetti porta a perdere un radicamento reale in ciò che di nuovo si muove in politica. Come se non bastasse, la lista Rivoluzione civile non mostra un chiaro programma economico. Di fronte alla più grossa crisi economica dal dopoguerra, che impone di combattere con nettezza teorie e pratiche di un modello di sviluppo in esaurimento, si tratta forse del deficit più grave. Non a caso, per adesso, avvertito dall’elettorato: non bastano le petizioni di principio (sul fiscal compact o sulle energie alternative) qui c’è la necessità di trasmettere la praticabilità di un modello di sviluppo inclusivo e realistico. Con la consapevolezza, che Syriza ha comunque avuto, che questo significa entrare in rotta di collisione con l’eurozona. E quindi con una porzione significativa dei partiti e del mainstream mediale.

Questo per mantenersi aperti su una ipotesi d'evoluzione della lista Ingroia sull’ineludibile, senza il quale non sei un soggetto politico, nodo dell’economia. Ingroia infatti sostiene che la vera emergenza economica è quella criminale e che, una volta sanata questa, è possibile ridurre il debito.
Una concessione quest’ultima, quella del debito come causa dei mali economici e non come sintomo, più marcata a Monti e Bersani di qualsiasi altro genere di apertura. L’esplodere del debito pubblico, non sanabile nemmeno togliendo i soldi a Cosa Nostra, infatti, non è che il sintomo della presenza dell’Italia in un’area valutaria ottimale, l’euro, che porta i paesi centrali a vampirizzare quelli periferici. Vampirizzazione che i paesi sudamericani degli anni ’80 e ’90 hanno conosciuto benissimo. Paradossalmente se Ingroia togliesse i soldi alla mafia finirebbe così per farli circolare a disposizione dei paesi capitalisticamente più forti dell’eurozona nel giro di pochissimi anni. Più che una soluzione economica il programma Ingroia sembra quindi una boutade. Nella convinzione che il richiamo alla moralità e alla legalità di per sé faccia funzionare un modello economico-finanziario, quello neoliberista dell’eurozona, che è di fronte ad una crisi epocale. Ingroia si mostra quindi l’ennesimo prodotto di un minimalismo politico, vecchio di trent’anni e che a sinistra ha trovato adesioni, che pensa che su pochi qualificati punti si possa far ripartire un paese.

E’ evidente che con il 41 per cento degli elettori che, stando ai sondaggi, non ha ancora preso posizione i margini di recupero per Ingroia ci sono. Ma il punto vero non sta nel numero di parlamentari da portare a Montecitorio o, con minore probabilità, al senato. La questione è tutta nel progetto politico, in uno dei periodi più duri della storia di questo paese, che nel migliore dei casi al momento appare del tutto acerbo.

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