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23/12/2012

La Gran Bretagna "potrebbe" uscire dalla Ue

Il primo ministro inglese ammette, davanti al parlamento che "è possibile" che Londra esca dalla costruzione politica europea. E' la prima volta dal 1973.

I conservatori inglesi sono inaffidabili in tutto, come Berlusconi e a volte anche peggio. Il loro legame col resto dell'Unione Europea è sempre stato più che scettico, al limite del boicottaggio, con una preferenza assoluta per le soluzioni “comuni” che lasciassero le “mani libere” per fare altrimenti.

Ma non era mai successo che il primo ministro inglese in carica – in questo caso l'infido David Cameron – arrivasse ad ammettere che l'uscita del paese dalla Ue “è possibile”. Naturalmente l'ha subito condita “all'italiana”, negando che questa sia una sua “preferenza”, ma senza affatto smentire che ormai l'ipotesi sia in campo.

I contrasti di qualche settimana fa sul bilancio europeo (la “legge di stabilità” della Ue) sono stati forti. Londra considera da sempre – non senza qualche ragione – pletorico l'apparato insediato a Bruxelles, troppo costose alcune politiche comunitarie, e in ogni caso poco favorevoli agli interessi britannici. Ma ora l'opzione di andarsene è venuta allo scoperto. Non è più un tabù indicibile.

È una novità forte. Quasi quanto le “riflessioni ad alta voce” di Wolfgang Schaeuble, in luglio, sull'elaborazione di un “piano B” per far uscire la Germania dall'euro. Un segnale che l'architettura bislacca di questo “aspirante super-Stato” scricchiola in molti punti. Non soltanto sul versante Piigs, a partire dalla Grecia distrutta, ma anche nei centri che più di chiunque hanno beneficiato del mercato unico e, a maggior ragione, della moneta continentale.

La Gran Bretagna è fuori dall'euro, continua a stamparsi le sue sterline e spargerle per il mondo. In misura molto più discreta di quanto non facciano gli Stati Uniti col dollaro, certamente. Ma lo fanno. Ospitano la più grande piazza finanziaria d'Europa, in strettissimo legame con quella statunitense; tanto da farla percepire, in piena crisi del 2009, quasi come una portaerei Usa da cui partivano ordini devastanti di vendita.

Ma nonostante la labilità dei legami con la Ue, Londra ora sembra pronta a reciderli. Per quanto poco vincolanti siano, vengono concepiti come un rischio.

La natura puramente strumentale della (scarsa) partecipazione alla Ue è stata per l'occasione apertamente ammessa dallo stesso Cameron: “Credo che la scelta che dobbiamo fare sia di rimanere nell'Unione Europea, per essere membri del mercato unico, per massimizzare il nostro impatto in Europa, ma se fossimo insoddisfatti di questa relazione non dovremmo avere paura di alzarci e dire questo”. Semplicissimo: stanno in questa compagnia di giro per “massimizzare il proprio impatto”, senza condividere né obiettivi, né criteri, dell'Unione. Sono dunque sempre favorevoli a misure che annientano altri paesi, perché questo favorisce implicitamente l'economia britannica (come si è visto con la fuga dei greci ricchi a Londra, da tre anni a questa parte); sono sempre contrari a quanto potrebbe limitare la “massimizzazione” del loro guadagno o addirittura produrre qualche perdita.

Il “collante” comunitario – quell'impasto ormai puzzolente di buoni princìpi e pessime “direttive”, di retorica ufficiale e interessi nazionali – sembra non tenere più. Per quale motivo, dunque, non bisognerebbe pensare a dei “piani B” anche da parte dei paesi che più sono stati danneggiati dalle modalità con cui è stata costruita la baracca?

La proposta di un'”Alba euro-mediterranea”, sulla falsariga di quella latino-americana, alla luce di questi “scricchiolii”, acquista dunque una concretezza che sorprenderà molti scettici “di sinistra” di casa nostra. Quelli che “senza l'euro dove andiamo a finire?”, e invece con l'euro guarda un po' dove stiamo andando...

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