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10/10/2012

Oltre Obama e Romney

Non ci sono solo Obama e Romney. Ci sono altri 24 candidati alle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti del prossimo 6 novembre. Le loro possibilità di vittoria sono meno di zero, la partita ovviamente si giocherà tra i due principali contendenti. Anche perché il sistema elettorale americano è stato pensato e costruito per ostacolare in tutte le maniere l'affermazione di un "terzo" candidato oltre a quelli dei due partiti che si alternano al potere.

Innanzitutto non è vero che chi prende più voti diventa presidente. Ne sa qualcosa Al Gore che nel 2000 prese più voti di George W. Bush e risultò sconfitto. L'elezione è indiretta, si eleggono 538 grandi elettori che esprimeranno a maggioranza (il quorum è 270) il presidente. Se si vince di un solo voto in uno stato si prendono tutti i grandi elettori di quello stato che sono stati precedentemente selezionati dai candidati. Le commissioni elettorali dei singoli stati generalmente chiudono un occhio, o entrambi, sulla validità delle firme necessarie alla presentazione per i due partiti maggiori e usano la lente di ingrandimento per tutti gli altri candidati. Le decine, se non centinaia di cause civili e penali intentate dai candidati discriminati contro le commissioni elettorali generalmente si concludono ad elezione avvenuta. L'accesso ai grandi media diventa praticamente impossibile ai candidati "terzi". In breve una democrazia talmente selettiva da diventare statica e autoreferenziale, che riconosce se stessa solo in base all'esclusione ed alla discriminazione - alla repressione nel caso dei movimenti sociali - dei soggetti politici che potenzialmente potrebbero introdurre anche solo dei piccoli cambiamenti.

Ma chi sono e cosa rappresentano questi candidati? Tralasciamo il folklore di gran parte di loro, veri e propri personaggi di una commedia improbabile, che predicano la maledizione divina prossima ventura, la centralità della rivendicazione di confezionarsi i vestiti con marijauna sintetica e lo scioglimento della National Security Agency, cosa di per se buona e giusta ma con una motivazione degna di un film horror: tutte le notti la NSA spargerebbe polvere d'amianto nelle case con lo scopo di sterminare i patriottici cittadini americani.
Poi ci sono i rappresentanti di piccoli e storici partiti della sinistra americana come il Partito socialista degli Stati Uniti, presente a queste elezioni presidenziali in soli 8 stati su 50, che si batte per un welfare gratuito ed esteso a tutti, la tassazione progressiva dei grandi patrimoni, i diritti dei lavoratori. Il Socialist Workers Party, presente in 4 stati, residuo della vecchia organizzazione trotskista ed ormai simulacro di un comunismo nostalgico e congelato. Il Partito della Pace e della Libertà, presente solo in California, in Colorado e in Florida testimone invecchiato della grande stagione della controcultura della West Coast degli anni ' 60. Fin qui sembrerebbe, più o meno, il solito scenario delle elezioni presidenziali americane con due candidati in corsa, un pacchetto di candidati inverosimili e un contorno a sinistra e destra di piccolissimi partiti che non vanno oltre la propaganda.

Ma dopo la debacle di Obama nel primo dibattito televisivo con Romney l'attenzione dei grandi media e dei due partiti maggiori si è fatta più viva verso il Libertarian Party (qui più che libertario forse la traduzione più corretta è partito libertariano) e il Green Party, il partito Verde, dati dai sondaggi rispettivamente tra il 5 e il 6% il primo e tra il 2 e il 3% il secondo. I repubblicani sono preoccupati di uno smottamento percentuale non insignificante verso il puro e duro darwinismo sociale dei cosiddetti "libertari", i democratici temono che la percentuale dei Verdi possa influire negli stati in bilico tra Obama e Romney. I cosiddetti "libertari" rappresentano un sentimento diffuso tra la destra antistatalista e antigovernativa americana. L'abolizione dei sindacati è combinata con la legalizzazione della marijuana, l'uscita degli Stati Uniti dall'Onu, dalla Nato, dal Wto e l'abolizione della Federal Reserve va di pari passo con il riconoscimento dei matrimoni gay, lo schieramento dell'esercito americano ai confini del Messico per impedire l'immigrazione con chiari intenti razzisti fa il paio con la battaglia contro qualsiasi controllo di Internet da parte di governi o multinazionali. Visto dall'Europa sembrerebbe il partito dei paradossi, visto da qui invece coglie in pieno una concezione dell'individuo - più libero se non tiene conto delle istanze collettive e se meno governato - presente in strati non indifferenti della popolazione.

Lo slogan della campagna di Jill Stein, candidata verde,"Un'altra America è possibile, un altro partito è necessario" riecheggia il movimento altermondialista e cerca di parlare direttamente ai settori moderati del movimento Occupy. Il programma è di stampo neokeynesiano e prevede un massiccio intervento statale per la riconversione "verde" dell'economia che di per sé produrrebbe in pochi anni 25 milioni di posti di lavoro senza mettere in discussione alla radice il modo di produzione capitalistico. Tutta la colpa della crisi e delle ingiustizie è addebitata agli squali di Wall Street che agirebbero senza regole ed avrebbero instaurato una sorta di "dittatura finanziaria". Insomma basterebbe smascherare i complotti di natura finanziaria per sconfiggere l'1 % a vantaggio del 99%.

Se a New York, Filadelfia e in parte Chicago questi discorsi hanno una certa presa in alcuni settori del movimento Occupy, sulla West Coast - tra Oakland, Portland e Seattle - non trovano udienza non tanto e non solo per un radicalismo intrinseco di quelle esperienze di movimento ma per una composizione politica e un impianto sociale che fa della sperimentazione delle forme autorganizzate e dei luoghi del conflitto il tema centrale della propria soggettività. Una combinazione tra composizione del movimento e radicamento sociale tale da risultare incompatibile, nei fatti, con la solita concezione che mette al centro la rappresentazione politico-istituzionale del conflitto sociale a discapito di un percorso di politicizzazione non confinato in una griglia già predisposta dalla somma aritmetica delle resistenze al neoliberismo e alle politiche di austerità. In questo non c'è nessuna "lezione americana" da trarre ed applicare in Italia. Però più che domandarsi continuamente perché non ci sia un movimento Occupy in Italia nonostante il governo Monti sarebbe forse il caso di mettere radicalmente in discussione le forme di rappresentanza politica, sindacale e di movimento che si danno oggi in Italia ed iniziare a ripensarle.

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