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30/10/2012

Elezioni in Sicilia: l'analisi degli antagonisti

Si comincia sempre volentieri dalle frasi celeberrime di Mao. Frasi famosissime ma dotate di una tale grazia che  non sembrano logorarsi nonostante l’uso e lo scorrere del tempo. Eppure la frase utile per spiegare quanto accaduto in Sicilia è di Deng Xiao Ping e compie giusto mezzo secolo: “non importa di che colore sia il gatto purché mangi il topo”. La frase di Deng va collocata nel contesto della durissima lotta, apertasi nel partito comunista cinese, dopo la tremenda carestia a cavallo degli anni ’50 e ’60 causata dal disastroso processo di industrializzazione forzata promosso proprio da Mao. Deng, con quella frase, suggeriva un approccio prudente e maggiormente pragmatico ai problemi dell’economia cinese rispetto al modello maoista di mobilitazione totale. Si tratta in fondo dell’approccio che lo ha portato a governare la Cina dopo l’esaurirsi della rivoluzione culturale. La frase di Deng, come quelle di Mao, va però anche intesa come un’allegoria, un qualcosa che trascende potentemente il suo primo significato. Nel nostro caso quindi possiamo interpretare benissimo nell’allegoria del topo la persistenza italiana di un ceto politico istituzionale fatto prevalentemente di disperati, pronto a vendere il paese all’incanto secondo le regole della governance liberista continentale. Il gatto, quello che può mangiare il topo, sembra essere il Movimento 5 Stelle con dei risultati elettorali semplicemente impensabili, almeno per i non avvertiti, pochi mesi fa. La storia italiana sembra così prendere le sembianze della filosofia di Deng: ci suggerisce un corso degli eventi nel quale il gatto può davvero mangiare il topo. Oltretutto l’approccio maoista del “grande balzo in avanti”, quello che criticava proprio Deng, negli anni, tralasciando la storia degli ultimi decenni, in Italia ha ripetutamente mancato la possibilità di mangiarsi il topo. Ma perché i risultati siciliani ci danno questa indicazione, sulla possibilità concreta di Grillo di paralizzare e sinistrare il ceto politico istituzionale?

Cominciamo da una realtà che, come d’abitudine, si trova esattamente al contrario delle frasi di Pierluigi Bersani. Il segretario del Pd ha parlato di voto siciliano come qualcosa di anomalo, difficilmente ripetibile. E’ evidente il tentativo di esorcizzare la presenza di Grillo, ormai materializzatasi in voti.  Ma i riti sciamanici possono poco contro l’accumularsi dei fatti: per il Movimento 5 Stelle la prova siciliana era quella più difficile. Non solo perché un flop, o persino un mezzo successo, del Movimento 5 Stelle in Sicilia avrebbe depotenziato in qualche modo la campagna per le politiche. Ma proprio perché le condizioni di riproduzione di quel movimento sono tipiche di un genere di società che è meno radicata al sud: alta ed efficiente penetrazione tecnologica, uso della rete su temi di opinione pubblica, presenza di un ceto, anche precario, di tecnici di ogni tipo che si politicizzano con temi da società civile del nord. A questa evidente mancanza, che aveva portato a maggio l’M5S a un 5% a Palermo ben diverso dal successo di Parma, ha sopperito lo stesso Grillo. Che ha colmato questo gap con un tour siciliano impressionante per numero di date, capacità performativa sul terreno e partecipazione di massa. La vittoria siciliana di Grillo è quindi frutto di una doppia capacità performativa: sul terreno e in rete. Dove la prima compensa i difetti strutturali locali della seconda. E nonostante che i media nazionali abbiamo ridotto ai minimi termini, salvo la traversata dello stretto, la campagna di Grillo.

E così è arrivato il risultato dell’M5S primo partito della Sicilia con un forte peso simbolico e politico a livello locale e nazionale. L’astensionismo, come si è visto in Sicilia, non frena poi il grillismo. Al contrario, come a Parma, oggi ne rappresenta una delle condizioni per la vittoria. Sta infatti accadendo questo: una parte consistente della società esce dalla politica istituzionale, dai suoi nessi clientelari ormai impoveriti o dalle sue subculture di riferimento, e si rifugia nel sonno dell’astensione. Mentre una parte significativa dell’elettorato, ormai trasformato in informed citizenry dalle rivoluzioni tecnologiche e dalle mutazioni delle culture politiche, erode spazio alla propaganda tradizionale dei partiti. Finendo così per pesare in un doppio modo: perché fa convergere i voti verso le liste “contro la casta” e  perché questo spostamento viene amplificato, in termini di percentuali di voto,  dall’assenza di voti ai partiti tradizionali causa astensione. Insomma l’attuale informed citizenry italiana non solo soprattutto vota Grillo ma, per come si sta spostando l’elettorato italiano, è come se ogni suo voto valesse due. Naturalmente Pdl e Pd sono liberissimi di pensare che l’astensione rappresenti una sorta di parcheggio di voti che poi possono tornare. Ma per adesso è lecito presupporre il contrario: l’astenuto rappresenta un’identità politico elettorale in mutazione che, una volta assimilata la nuova tendenza generale del voto, può tornare ad essere elettore persino contro l’ex partito di riferimento. E oggi la tendenza generale parla con un nome solo: Grillo.
Si è aperto così un scenario greco per la Sicilia: entro una crisi sociale ed economica fortissima i partiti istituzionali del passato hanno visto, in percentuali diverse, perdere il proprio potere tradizionale di attrazione. E’ emersa così una forza elettorale dirompente, come Syriza in Grecia, capace di mettersi in primo piano ma non ancora di vincere del tutto. Vista la situazione siciliana, per Grillo, meglio così: può fare propaganda quanto vuole sulle prossime convulsioni di centrodestra e centrosinistra in Sicilia e usare i risultati di queste campagne sia a livello locale che nazionale.

Bersani ha parlato di “risultato storico in Sicilia”: intendeva la vittoria elettorale di Crocetta. Per quanto possa essere considerato un risultato storico, vincere avendo agganciato l’Udc siciliana, già incubatrice dei Cuffaro e dei Saverio Romano, ed ancora oggi espressione del peggiore, inquinato e più retrivo potere clientelare dell’isola. Ma c’è anche un’altra dimensione storica che Bersani deve considerare: la possibilità di un risultato siciliano che serva da detonatore per evidenziare, al grosso dell’elettorato italiano, le continuità tra il Pd e il peggio della vecchia politica. Già oggi Pd e M5S sono separati, a livello nazionale, da soli 3 punti secondo sondaggi della stessa Swg di centrosinistra. E oggi i  sondaggi tendono a prenderci oppure ad orientare il voto: non a caso ne circolava uno, nei giorni scorsi, con Grillo primo partito della Sicilia. Visto quanto è cresciuto l’M5S nei sondaggi a livello nazionale con l’effetto Parma, dal 5% dell’aprile al venti delle settimane scorse, il fenomeno è di quelli da tenere in considerazione. Il consenso a politiche montiane o post-montiane, che sono la stessa cosa, all’Europa dei “sacrifici” alle prossime elezioni generali può effettivamente mancare proprio sul piano della volontà popolare. Ben sapendo che non siamo nell’ottocento e che la volontà popolare fa poi sempre i conti con la governance continentale.
Le conseguenze della politica siciliana su quella nazionale sono poi storicamente consolidate dal punto di vista della politica istituzionale. Basti pensare alla giunta Lombardo, presidente poi inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa, che ad un certo punto ha goduto dell’appoggio del Pd. Stavolta le conseguenze possono essere diverse: la Sicilia può anche dare al gatto una spinta importante per mangiarsi il topo. Avendo dato a Grillo quel tipo di spinta proveniente dal movimento dei forconi che non è stata capitalizzata dalla lista locale che ne faceva direttamente riferimento.  Certo, d’ora in avanti può veramente accadere di tutto, come accade in Italia quando in Sicilia cambiano gli equilibri politici, e non sono da escludere colpi di scena di ogni genere. Si possono anche scatenare forze che ribaltano lo scenario nazionale così come si prospetta dal voto siciliano. Ma Grillo, se visto con gli occhi dell’oggi, ha la capacità di catalizzare tutta la protesta contro il decadente ceto politico neoliberista che si è saldato dentro le istituzioni del paese. E qui non si deve aver timore di non contribuire  a sabotare un qualcosa che può arrivare alla giugulare dei partiti della seconda repubblica.

Anzi, a questo punto rispunterebbe Mao, quello della rivoluzione culturale avversata proprio da Deng: nel mezzo della lotta intestina al Pcc, che era uno scontro tra differenti facce della società cinese, alla fine della prima metà degli anni ’60, quando ci furono le condizioni per far scattare l’indicazione: “bombardate il quartier generale”. La terribile saggezza del Grande Timoniere finisce infatti per avere l’ultima parola anche sul più intelligente revisionismo. Dietro l’immagine di Deng, rispunta così il volto di Mao. E così deve essere perché, in Italia, una eventuale missione compiuta del gatto nei confronti del topo aprirebbe un caos tale, nella politica istituzionale, da rendere necessario uno sforzo politico di portata ben superiore rispetto ai suggerimenti dettati dal pragmatismo. Nel frattempo, senza ambiguità o senza snaturarsi oppure dissolversi fa bene seguire l’indicazione di Mao: “dobbiamo sostenere tutto ciò contro cui il nemico combatte, e combattere contro tutto ciò che il nemico sostiene”. C’è un vecchio terrore nella politica comunista: quello che vuole che il solo esercizio della tattica neghi la possibilità del distendersi della strategia. E’ invece nel migliore esercizio della tattica che la strategia comincia sia a far sentire il peso delle proprie esigenze che a far intravedere la possibilità di un futuro. Che il gatto mangi quindi il topo, se ce la fa. E lunga vita alla memoria del compagno Mao.

Per Senza Soste, nique la police

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