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14/09/2012

Napolitano e l’ipotesi di golpe bianco. Cronache delle mutazioni istituzionali

Quando Giorgio Napolitano fu eletto presidente della repubblica nella primavera 2006 nell’elettorato di centrosinistra, e là dove si fabbrica opinione pubblica, prevalsero due convizioni. La prima, all’epoca prevalente,  che era stato eletto un vero guardiano della costituzione. La seconda è che l’indirizzo della presidenza, dopo Ciampi e Cossiga, sarebbe stato meno monetario e più politico (dopo il periodo Ciampi, ex presidente della Banca d’Italia) più legato alla continuità delle forme istituzionali e meno ai momenti di rottura (visto il periodo Cossiga, quello del “picconatore”). Nonostante sia stato votato  quasi esclusivamente dal centrosinistra Napolitano era un candidato presidente apprezzato anche dal centrodestra. Riporta il Corriere della Sera dell’epoca: “Dal centrodestra sono venute molte esplicite dichiarazioni di apprezzamento per Giorgio Napolitano, tali da far pensare che la divisione degli schieramenti sul suo nome sia molto più formale che sostanziale”. Va considerato che a suo tempo, fine anni ’80 la corrente milanese di Napolitano nel Pci riceveva pubblicamente, per la propria rivista, finanziamenti da Publitalia ricambiando con articoli sulla “modernizzazione” (testuale) del modello di impresa berlusconiano. Ma è storia vecchia, solo per far capire che l’apprezzamento del centrodestra per Napolitano (l’unico che difese nel Pci, anche qui pubblicamente, Craxi contro la linea berlingueriana delle mani pulite) aveva comunque radici lontane. E anche per far comprendere che Napolitano è un soggetto politico apparentemente statico. Nella continuità, della indigeribile retorica istituzionale che lo contraddistingue, metabolizza continuamente le trasformazioni.

I tempi infatti cambiano, anche velocemente, vista la dura situazione nazionale e internazionale. Nel burrascoso triennio dell’ultimo governo Berlusconi, Napolitano ha seguito di fatto la seguente linea:  gioco di interdizione formale, ma senza rompere clamorosamente (anche se ci è andato vicino a causa di qualche pittoresca pretesa di decreto da parte di Berlusconi), verso le leggi aziendali del presidente del consiglio (comprese le leggi personali); gioco di difesa delle prerogative istituzionali nel momento in cui il governo di centrodestra arrivava vicino al piano rottura con l’ordinamento della repubblica (sempre a causa delle leggi personali).  La defestrazione di Berlusconi, su cui Napolitano ha lavorato alacremente non prima di aver stoppato un Monti già pronto nell’agosto 2011, chiude poi non solo una fase del settennato ma anche della vita della repubblica. Pensare Napolitano con gli occhi rivolti al periodo precedente alla caduta di Berlusconi è qualcosa che può solo disorientare rispetto a quanto accade oggi.

Il vero punto di svolta pubblico della presidenza Napolitano, che fa completamente saltare le due considerazioni prevalenti all’epoca della sua elezione,  avviene a Bruges nell’autunno del 2011. Siamo nel periodo rovente del passaggio di consegne da Berlusconi a Monti.  In quella conferenza, nel Belgio dove ha sede l’Unione Europea, Napolitano sostiene testualmente che per l’Italia è giunto il momento della “necessaria cessione di una parte di sovranità”. Qualcosa di più grosso della stessa cessione della sovranità monetaria, del trattato di Maastricht e di tutti i vincoli posti fino a quel momento da Bruxelles. Un presidente della repubblica che va all’estero in un momento cruciale parlando di cessione di sovranità del proprio paese, senza alcun mandato corale, dovrebbe quanto meno essere sotto controllo critico del parlamento e dell’opinione pubblica. Ma, si sa, in molti paesi a liberismo maturo (a suo tempo fece scuola la Nuova Zelanda) il modello della pubblicità della discussione politica reale non viene praticato. Basta che alcune reti e nessi istituzionali si parlino, decidano e poi vengono compiuti atti forti, pubblici. Che magari vengono affogati nei media grazie al gossip politico di giornata. Il resto, capisca o non capisca (o faccia finta di non capire), seguirà necessariamente.

A questa che è una seria, vera rottura, pubblica e politica, nei confronti della costituzione, Napolitano ne fa seguire almeno un’altra importante stavolta sul piano formale. E si parla dell’introduzione, controfirmata (e prima ancora auspicata), in costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. La costituzionalizzazione del liberismo, di cui il pareggio di bilancio è regola aurea, è una rottura epocale (alla quale corrisponde, come da dettato liberista, una devoluzione accelerata della protezione normativa del lavoro) tanto quanto è fragoroso il silenzio con il quale è stata approvata.
Non si tratta di questioni da poco. Che cambiano la natura stessa dell’istituto della presidenza della repubblica.  Una istituzione infatti che, prima che sia introdotta la costituzionalizzazione del liberismo, va all’estero a declamare pubblicamente, la propria cessione di sovranità significa una cosa: che questa istituzione si fa garante, verso l’estero, dell’esecutività della cessione del potere sovrano a livello continentale e nazionale. Niente a che vedere con la funzione del presidente della repubblica assegnata dalla costituzione del ’48, insomma.  Già,  ma con quale razionalità politica? Non ci vuole molto a capirlo, seguendo l’interpretazione dell’Economist. Testata, che segue Draghi passo per passo, e che ha interpretato un articolo del presidente della Bce per Die Zeit come una lettura estensiva e politica del ruolo della banca centrale europea. Lettura che ci fa comprendere verso quale ristrutturazione di ruolo e potere, e a quale livello di separazione dalla società e dal resto delle istituzioni, tenda il nucleo forte di poteri delle istituzioni italiane.

Draghi, al di là delle formule di rito, non intravede infatti un’unione politica per la prossima fase dell’area euro, e qui la sentenza di Karlsruhe sembra dargli ragione, ma “un accumulo di sovranità su selezionate politiche economiche”. Tradotto in altri termini: una unione politica europea significherebbe farsi carico dell’intera popolazione continentale, mentre il liberismo è una politica che si materializza solo là dove si può privatizzare e accumulare. Piuttosto è necessario un ulteriore trasferimento selettivo di poteri rispetto al passato, verso una evoluzione della governance economica e finanziaria, che renda possibile quelle politiche performative richieste dalle leggi odierne di concentrazione del grande capitale economico e finanziario. Leggi di concentrazione del capitale che non coincidono più con  la necessità di governare gli stati ma con quella di potenziare le evoluzioni delle politiche di governance. In poche parole il liberismo si concentra, nei dispositivi di governance, dove pensa di innovare e accumulare, al resto pensano gli spiriti animali delle singole società, l’atomizzazione sociale dei mondi neoliberali, l’ordine pubblico e la provvidenza. Per far questo naturalmente stati periferici come l’Italia devono trasferire maggiori quote di sovranità ma non verso “una più compiuta unione politica del continente”, come recitano le formule ufficiali, quanto verso questo accumulo di sovranità di selezionate politiche economiche. Accumulo che taglia in due il continente in un, invisibile quanto robusto e costituito dalle tecnologie della governance, confine tra una minoranza di inclusi ed una  maggioranza di esclusi. La Bce più che la grande politica tiene così in mano la big governance: essendo un attore monetario e finanziario forte, autonomo che entra in dialettica con i dispositivi di potere attivati dalla cessione di sovranità dei singoli stati. Cessione che è un fenomeno rovinoso per paesi come l’Italia e una sfida da affrontare per paesi come Francia e Germania. Napolitano, in questo modo, è una figura di garanzia per quelle ristrette reti di potere italiano che, proprio cedendo sovranità nazionale, pagano le quote per entrare nel gioco della big governance. Se poi esistono elettori del Pd che, alla festa di quel partito, si mettono la mano sul cuore come i giocatori sudamericani quando parte l’inno nazionale pensando a Napolitano e alla bandiera, nessuno può farci nulla. La storia infinita degli abusi della credibilità popolare ha visto questo e ben altro.

Dopo il discorso di Bruges, e la costituzionalizzazione del liberismo, la presidenza Napolitano si caratterizza infatti per la firma sull’approvazione del fiscal compact, formalmente conseguente a questa costituzionalizzazione: è l’oneroso impegno italiano ad approvare meccanicamente i dispositivi di governance, su deficit e bilancio, definiti nell’area euro. Per quanto il fiscal compact sia un dispositivo altamente instabile sul piano normativo e finanziario (la Frankfurter Rundschau su questo ha fatto ad inizio anno un articolo di rara efficacia esplicativa sul piano giuridico ed economico) nelle intenzioni di chi l’ha approvato rappresenta la formalizzazione di questo trasferimento di sovranità. Mai discusso a livello pubblico in Italia, mai posto a discussione in nessun passaggio elettorale. E, una volta approvato, parole di Napolitano, questo trasferimento viene definito come indiscutibile specie a livello di dibattito per le elezioni politiche. In poche parole: si cambia la forma politica, sociale ed economica dell’Italia, usando un parlamento in crisi, senza discussioni reali e chi critica, o vuol sottoporre queste mutazioni alla volontà popolare, è un populista. Quanto allo sganciamento dei nuclei forti delle istituzioni italiane dalla società, e dal resto delle istituzioni, bravo chi lo vede oggi. Al massimo, visto il livello del dibattito politico attuale, sarà materia per gli storici.
Davvero viene da dire che se il fascismo realizzava i propri obiettivi politici usando il manganello come procedura oggi, con Napolitano garante, si usa la procedura come manganello. E, una volta chiusa la procedura, si può anche votare perché questo genere di norme è costruito come inattaccabile e indiscutibile. La retorica degli “impegni assunti con l’Europa” copre tutto.Finchè dura.

Come al solito però il diavolo ci mette maliziosamente la coda: questo trasferimento di sovranità, verso selezionate politiche economiche e finanziarie a livello continentale, non garantisce alcuna stabilità alle stesse reti di potere italiane che vi si sono annidate dentro. La contrazione economica italiana e il rischio di degenerazione della situazione finanziaria nazionale, anche ma non solo a causa del rischio sistemico dell’eurozona, sono tali da mettere in discussione le stesse reti di potere che hanno promosso il trasferimento di sovranità verso la governance europea. Istituzione che dimostra così sia la difficoltà di governare realmente persino le proprie crisi che una sete di trasferimento di potere, e di risorse, praticamente senza pausa di continuità. Nella valorizzazione del grande capitale, nonostante questo sforzo sistemico europeo, c’è qualcosa che non funziona, evidentemente. Da cosa comprendiamo che lo stesso potere italiano, quello che ha promosso il trasferimento di sovranità, è a rischio? Anche qui dalle parole dello stesso Draghi il quale, nel più recente discorso pubblico, ha detto chiaramente che gli aiuti finanziari (anche se qui la parola “aiuti” va intesa in senso orwelliano) saranno concessi a paesi come l’Italia e la Spagna, o la Slovenia, solo se questi accettano un sostanziale, o peggio ancora formale, commissariamento. Per le reti di potere italiane, di cui Napolitano si è fatto garante, che hanno operato il trasferimento di sovranità descritto si tratterebbe di una secca sconfitta. Avrebbero trasferito potere senza contropartita reale, addirittura ponendo in discussione la loro stessa esistenza politica. La discussione sul “Monti dopo Monti” che occupa le televisioni e i giornali, come si vede, è tutt’altro che senza significato reale. Significa piuttosto proseguire verso quelle politiche di bilancio, quelle della “crescita” in assenza di una politica nazionale autonoma non esistono, in modo tale da evitare il commissariamento, e quindi la fine di un potere reale, delle stesse reti istituzionali che hanno operato le ristrutturazioni in atto. Quelle in nome del quale si è trasferita la sovranità italiana.

C’è un però: nonostante il trasferimento di sovranità è rimasto il “residuo” della sovranità originaria. Quella che, nelle democrazie rappresentative come quella italiana, è chiamata sovranità popolare. Che va contenuta e regolata altrimenti cade anche tutta questa architettura del trasferimento di sovranità operata tramite Napolitano. In poche parole, il rischio di chi ha ristrutturato il potere in italia consiste nel fatto che si possono formare, alle elezioni, combinazioni di maggioranze che entrano in conflitto con il trasferimento di sovranità verso l’”Europa” avvenuto come operazione tecnica e naturale. In effetti nel paese la situazione sociale è pessima, il risentimento verso i partiti è generalizzato e qualcosa del genere può accadere a livello elettorale. Anche qui, non a caso a questo punto, Napolitano si è fatto pubblicamente garante, con un discorso esplicito, del controllo e della riduzione a razionalità “europea” di qualsiasi tipo di maggioranza esca dalle urne. E questo discorso pubblico, sulla sorveglianza degli “impegni assunti con l’Europa”, secondo il classico schema dell’un per cento che assume vincolanti impegni per il 99, rappresenta comunque una sorta di coronamento della fine di un settennato. Napolitano è infatti di fronte ad un bivio. Se dalla urne esce una maggioranza “europea”, che vincola il 99 per cento della popolazione al trasferimento di sovranità senza discussioni, allora la fine del settennato di Napolitano sarà di tipo cerimoniale. Si celebrerà il trasferimento di sovranità, assieme alla costituzionalizzazione del liberismo, come “contributo all’integrazione tra istituzioni europee” che, come abbiamo visto, invece è una sovrapposizione di quei pochi, per quanto complessi, poteri necessari a garantire solo i terreni di accumulazione economico-finanziari, spaccando l’europa in due (con i paesi singoli disposti a macchia di leopardo tra zone in e out). Se invece dalle elezioni non uscirà questo esito, ed è quello che si teme, allora ci si prepari ad un Napolitano, proprio perchè consapevole di essere a fine mandato, che si sente libero di operare qualche significativa forzatura. Chi ha lavorato, alacremente bisogna dire, per trasferire la sovranità in queso modo non si ferma certo davanti all’ultimo miglio. E la creatività giuridica permette oggi miriadi di forme di golpe bianco.
Napolitano, comunque vadano le cose, passerà alla storia, nonostante le attese del 2006, come il garante del processo di dissoluzione reale della costituzione del ’48. Per molti un paradosso. Ma quando si sviluppa, in una carriera politica, applaudendo i carri armati in Ungheria e Cecoslovacchia per continuarla come ambasciatore del compromesso storico presso il governo Andreotti, tutto è possibile. E’ bene ricordarlo.

Ps. Su quella produzione permanente di avanspettacolo politico detta sinistra residua è meglio ridursi a pochi cenni. Basti ricordare Asor Rosa che addirittura suggerì, dalle pagine del Manifesto, un golpe a Napolitano per liberarsi di Berlusconi. Oppure Nichi Vendola, il cui eclettismo politico ha raggiunto livelli di vertigine, che ha recentemente detto di sentirsi garantito da Napolitano proprio quando questi è entrato in conflitto con la magistratura di Palermo sulla vicenda stato-mafia. Non ci sarà da stupirsi se, con il successore di Napolitano, la sinistra residua si costruirà tutta una mitologia dell’attuale presidente della repubblica attribuendo al nuovo tutti gli orrori compiuti dal vecchio. Certe aree culturali e politiche possono fare una cosa sola: rimettersi alla serena clemenza dei futuri storici di questo periodo. Sempre se, tra l’università voluta da Luigi Berlinguer e le politiche di rigore di Monti e Napolitano, ci sarà ancora il mestiere di storico in questo paese.

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