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11/09/2012

11/09: dopo undici anni gli USA sono ancora in guerra

In un editoriale sul “New York Times” dello scorso giugno, Jimmy Carter ha definito “vergognosa” la politica americana post-11 settembre. E lo ha fatto citando la violazione della privacy attraverso “intercettazioni senza precedenti”; gli omicidi mirati da parte della CIA; la legalizzazione del diritto di detenere indefinitamente i sospetti terroristi; l’uso continuo dei droni sui civili in Afghanistan, Pakistan, Somalia, Yemen. Per l’ex-presidente si tratta di politiche antiterrorismo che “violano almeno 10 dei 30 articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”, e che segnalano che “il nostro Paese non ha più l’autorità morale per parlare di diritti”.
Una risposta alle affermazioni di Carter è venuta qualche giorno dopo da parte di John Brennan, senior adviser della Casa Bianca sulle questioni antiterrorismo. Gli attacchi dei droni, ha spiegato, sono perfettamente “legali”, “morali”, persino “saggi” perché consentono di “salvare i nostri uomini e donne in uniforme” e “rimuovere i terroristi dal campo di battaglia”. Brennan ha riaffermato la “trasparenza” della politica americana in tema di terrorismo, aggiungendo che, “anche se al-Qaeda è l’ombra di quello che era”, la war on terror americana non è destinata a concludersi nel futuro immediato.
A 11 anni dalla strage, dunque, la guerra continua. Oggi è però soprattutto il giorno del ricordo e i nomi delle 2977 vittime di Due Torri e Pentagono saranno pronunciati ad alta voce, come sempre, a New York e in tanti altri centri grandi e piccoli. Forse ci sarà un po’ meno intensità, rispetto all’anno scorso, quando cadde il decennale. In tempi di campagna elettorale sono del resto altri i numeri che vengono più spesso ricordati – soprattutto i 23 milioni di americani senza un lavoro – e l’attacco diventa storia condivisa più che cronaca urgente.   Si sbaglierebbe comunque ad archiviare come memoria quel giorno di settembre di 11 anni fa. “L’11 settembre rimane tra noi – ci spiega David Cole, uno dei più importanti costituzionalisti americani. E’ l’evento che ha accelerato processi di limitazione delle libertà in atto da decenni. Nessuno, nemmeno l’elezione di un presidente come Barack Obama, è riuscito a frenare il fenomeno”. Norme eccezionali come il Patriot Act, la legge antiterrorismo fatta votare da George Bush all’indomani dell’attacco, “sono ormai diventate patrimonio integrante della legislazione americana”, spiega Cole, e Guantanamo (dove ieri un detenuto è stato trovato morto), nonostante i tentativi di Obama di chiuderlo, rimane attivo e operante, con i suoi 168 sospetti terroristi ancora detenuti, in larga parte privati di habeas corpus e diritto alla difesa. Il loro futuro, con ogni probabilità, dipende dai tribunali militari istituiti da Bush e reintrodotti da Obama. 
Proprio su Obama, in questi mesi, si è concentrato il dibattito. Il presidente, costituzionalista di formazione, era stato eletto nel 2008 suscitando favore e speranze nei gruppi per i diritti civili. Nel 2010 Angelo Romero, executive director dell’American Civil Liberties Union, ha però dismesso gli entusiasmi e detto di essere “disgustato” da Obama. In compenso questa amministrazione ha incassato lodi e appoggio da parte dei falchi del precedente governo. Jack Goldsmith, il funzionario del Dipartimento di giustizia che ha personalmente approvato tortura e spionaggio domestico, ha scritto su “New Republic” che Obama è stato più efficace di Bush in tema di lotta al terrorismo. Michael Hayden, ex-direttore della CIA, ha detto che c’è “una continuità potente tra Bush e Obama”. E persino il falco dei falchi, l’ex-vicepresidente Dick Cheney, ha raccontato che Obama si è reso conto “che quello che abbiamo fatto è stato giusto”.
Quello che Obama ha fatto, in effetti, è rendere legale ciò che il suo predecessore aveva mantenuto in una zona grigia, creando al tempo stesso una struttura operativa in larga parte incurante delle protezioni del Bill of Rights. Obama ha oggi il potere di ordinare un assassinio senza dover prima passare da Congresso o tribunali. Obama è stato il primo presidente a festeggiare pubblicamente l’omicidio di un cittadino americano. E’ successo in Virginia, nell’ottobre 2011, quando il presidente ha celebrato l’eliminazione di Anwar al-Awlaki, militante di al-Qaeda nato in New Mexico, contro cui la giustizia americana non ha mai levato alcuna accusa formale. Obama è il primo presidente USA a permettere che un cittadino, americano e non, possa finire in galera indefinitamente e senza accesso a un tribunale. Bush l’aveva fatto ampiamente, con José Padilla e le altre migliaia di arrestati dopo l’11 settembre, senza però mai legalizzare la cosa. Obama è stato più sistematico e ha firmato il National Defense Authorization Act del 2012, che consente di riempire legalmente le carceri dei paesi amici – Bagram, Afghanistan, anzitutto – di sospetti terroristi, senza che il governo americano debba provare nulla.
“Il vero salto di qualità riguarda però le politiche interne”, ci spiega ancora David Cole. Se infatti l’amministrazione Bush aveva rivolto gran parte della sua attenzione all’estero, quella di Obama ha stretto il cerchio all’interno. La National Security Agency sta oggi costruendo tra le montagne dello Utah il più vasto e capillare centro di spionaggio al mondo che, come afferma James Bamforth di Wired.com, avrà il compito di “intercettare, decifrare, analizzare, immagazzinare gran parte dei dati e delle informazioni che transitano per i network mondiali”. Il centro, chiamato genericamente Utah Data Center e costato 2 miliardi di dollari, sarà operativo dal settembre 2013. Certa la collaborazione di provider e società delle telecomunicazioni nazionali, cui il Congresso nel 2008 ha garantito l’immunità nei casi di passaggio non autorizzato al governo USA di informazioni riservate dei loro clienti. Quelle società sono anzi i migliori collaboratori, in quanto la Costituzione limita l’attività di spionaggio del governo, non quella delle società private.
L’involuzione seguita all’11 settembre ha toccato tante altre aree della vita degli americani. C’è stato il giro di vite contro Wikileaks e chi, come il soldato Bradley Manning, ha diffuso informazioni classificate sui modi in cui in questi anni è stata gestita la war on terror – il trattamento particolarmente inumano di Manning, tenuto in isolamento per quasi un anno in un carcere militare della Virginia, è considerato da alcuni come un avvertimento a eventuali altri whistleblowers, delatori, in possesso di informazioni riservate sulle indagini che hanno portato all’uccisione di Osama bin-Laden -. C’è stata la progressiva militarizzazione di gran parte delle agenzie statali e federali, soprattutto dell’ICE, l’Immigration and Customs Enforcement. E c’è stata, per l’appunto, la trasformazione dell’immigrazione da questione sociale in tema di ordine pubblico. Oltre la nota legge anti-immigrati dell’Arizona, hanno sollevato proteste e polemiche le nuove norme delle “Secure Communities” che il governo federale applica da quest’estate a New York, in Massachusetts e in altre zone del Paese, e che hanno portato all’espulsione di migliaia di migranti colpevoli di reati minori o amministrativi.
La lista potrebbe essere ancora lunga e contenere, per esempio, la sostanziale impunità offerta dal Dipartimento di giustizia agli agenti CIA responsabili della morte di prigionieri sotto loro custodia. Solo due tra questi sono stati perseguiti e quindi assolti per la morte di Gul Rahman e Manadel al-Jamal: il primo legato nudo a un muro di cemento gelato della prigione; il secondo fatto penzolare a testa in giù sino a quando del sangue cominciò a fuoriuscire dalla bocca. Le indagini militari avevano accusato gli agenti di omicidio. Il Dipartimento di giustizia, nell’assolverli, ha concluso che “non esistono nei due casi prove sufficienti e al di là di ogni ragionevole dubbio”.

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