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22/07/2012

Thalassa: uomini e mare. E un disastro ecologico di cui non si parla

“Ci sono pescatori che se li bendi e li porti in alto mare, dove non si vede la costa, ti sanno dire esattamente dove sono e quanto è profondo il mare in quel punto”. Bastano poche parole dello storico della marineria Augusto Aliffi per dare l’idea di quel mondo antico e affascinante in cui si muovono, o sarebbe meglio dire si muovevano, i pescatori di Siracusa. Un mondo che sta scomparendo e che, in parte, rivive in Thalassa. Uomini e mare, documentario prodotto da MySiracusae, opera prima di Gianluca Agati, promettente documentarista siracusano. E il mensile on line lo ha intervistato.

Il documentario dura 26 minuti, non è molto lungo ma è piuttosto denso. Hai messo molta carne al fuoco. Si parte dalla scomparsa di un mestiere e di un mondo più in generale per poi, indagandone le cause, arrivare a parlare di problemi che hanno un’altra dimensione, come la scomparsa del tonno rosso e le devastazioni ambientali inferte al Mediterraneo.
Si è vero, in Thalassa ho toccato almeno quattro temi ciascuno dei quali avrebbe meritato un intero documentario da solo. Qui non si parla solo di marineria siracusana, ma anche di alimentazione, della necessità di promuovere il consumo di certe specie piuttosto che di altre, di economia e di ambiente.

E allora procediamo con ordine. In Thalassa come prima cosa racconti la scomparsa di mestieri, quelli legati alla pesca, e la scomparsa di un mondo.
Certi mestieri hanno cominciato a scomparire molti anni fa, negli anni Quaranta, più o meno, con l’arrivo dell’industria chimica, quando, molto prima dei russi di adesso, arrivarono i Moratti, che fecero i primi investimenti ad Augusta, per la grande gioia dei primi governi democristiani locali ma anche della popolazione. Questo ha avuto un profondo impatto sociale, perché in molti preferirono alla fatica nel cantiere navale o a una vita da pescatore, senza la certezza di un guadagno, la sicurezza di una vita da impiegato, con tredicesima, servizio mensa, e tutto ciò che comportava, come maggiori possibilità di accendere un mutuo, comprare casa. Sia chiaro, la mia non è una critica. Ma questo, a lungo andare, dopo quaranta, cinquant’anni, oltre ai danni ambientali che ha procurato, ha trasformato il tessuto della città. Adesso si parla di Erg, di rigassificatori, di raffinazione di benzina, non si parla più di pesca tradizionale. La città non ha più la stessa anima.

Rimanendo alla questione sociale, prima di affrontare quella ambientale, quali sono i danni prodotti da questa trasformazione? Cosa si è perso con questi pescatori, che nel documentario emergono come personaggi meravigliosi?
Sono gli ultimi, considera che tra le nuove generazioni di pescatori non ci sono più italiani. Se fai un giro, scoprirai che sono tutti nordafricani. Tra Siracusa e Bengasi ci sono sempre stati traffici. Un sacco di siracusani hanno lavorato giù con la pesca, e ora c’è un sacco di gente che ha effettuato il percorso inverso. Però adesso non trovi più il ragazzetto ma nemmeno il trentenne italiano, siciliano che pesca. A Siracusa non ne trovi, a sud verso Marzameli c’è ancora qualcosa. La maggior parte sono stranieri. I vecchi sono gli ultimi e sono loro che parlano nel documentario. Quindi direi che si è perso un patrimonio culturale. Però, ripeto, capisco perfettamente le ragioni per le quali sono stati abbandonati certi mestieri, perché, oltre che molto faticosi, da un punto di vista economico non offrivano nemmeno troppe sicurezze. Quello che pesca con le nasse nel video dice che se la battuta di pesca andava male, magari per il maltempo, loro a casa dovevano stringere la cinghia, perché si tornava con poca roba.

Guardando il documentario però viene il sospetto che non tutto sia imputabile all’industria.
No, infatti, c’è da fare un discorso più ampio, ed è poi questa la ragione che mi ha spinto a farmi dare da Greenpeace l’autorizzazione ad usare alcuni suoi video. Se tu abiti in un paesino che vive della tonnara ma a un certo punto di tonni non ne vedi più, perché c’è qualcun altro che ha molti più soldi, barche gigantesche, elicotteri, che si apposta a Gibilterra, nel punto in cui passano i tonni, e li prende tutti, il paesino muore, è costretto a reimpostare la sua economia.

In concreto cosa è successo?
Le cose sono cambiate quando il Giappone ha fatto degli investimenti mostruosi con l’avallo di tutti i Paesi del Mediterraneo, i cui pescatori pescano per i giapponesi. Gli stessi siciliani che vanno a pescare il tonno di frodo, o non rispettando le quote stabilite dall’Iccat (International Commission for the Conservation of Atlantic Tuna, ndr), subito dopo lo rivendono ai giapponesi. In questo modo le tonnare fisse non hanno più motivo di esistere. E così un altro pezzo di storia scompare. Con le battute di pesca tradizionali, se il banco di tonni conta – supponiamo – cinquecento esemplari, ne puoi prendere duecento, trecento, quattrocento se sei davvero fortunato, ma comunque cento non li prendi. Con la tecnologia messa in campo dai giapponesi invece non c’è possibilità di errore: hanno radar, usano elicotteri per l’avvistamento dall’alto del banco, che viene così accerchiato e preso in blocco. Non si salva mai nessun esemplare. In questo modo prima o poi i tonni finiranno.

Da quanto tempo sono presenti i giapponesi nel Mediterraneo?
Da quel che mi risulta, dai primi anni anni Novanta. Il pesce viene pescato nel modo che ho descritto prima e poi può essere lavorato subito sulle navi fattoria: allora viene ucciso, dissanguato, trasformato, inscatolato e spedito subito. Quando però la pezzatura è sottodimensionata, il pesce viene trasferito in uno degli allevamenti. Nell’Adriatico ce ne sono una quantità incredibile. La più alta concentrazione ce l’ha Malta. Mi dispiace non aver potuto inserire nel documentario, perché troppo sgranate, le immagini girate sott’acqua che mostrano cosa rimane sul fondale dopo che concentri diecimila tonni all’interno di un cerchio e dai loro da mangiare tonnellate di pezzame, mangime, acciughe, medicine e porcherie varie. I danni ambientali, gravi, si vedono chiaramente: su
quei fondali sembra che siano passati gli alieni.

Eppure il tema non è molto noto né dibattuto.
Purtroppo in materia non ci sono politiche efficaci a livello comunitario, anche perché tutti i Paesi del Mediterraneo hanno da guadagnarci. Inoltre qui non parliamo di imprese di piccole dimensioni. I giapponesi sono presenti con veri e propri colossi. Il più grande si chiama Mitsubishi ed è proprio quello che costruisce le macchine e che avendo la possibilità di contare su impianti di stoccaggio, ha creato delle riserve di tonno, cosa che le permette di controllare il prezzo mondiale del prodotto. Più il tonno comincia a scarseggiare nei mari, più Mitsubishi acquista potere e riesce a condizionare il prezzo.

Prima dei titoli di coda, compaiono le cifre, sconcertanti, che raccontano il disastro in corso. Tra il 1957 e il 2007 la presenza del tonno nel Mediterraneo è diminuita del 74,2 per cento. Continuando così, nel 2015 nove tonni su dieci saranno scomparsi.
Si, e considera che sono dati vecchi di due anni.

Fonte

Un mondo a puttane, quando verrà il momento di rimettere insieme la baracca probabilmente non ci sarà più un cazzo da poter tirare nuovamente in piedi e nemmeno nessuno in grado di farlo vista la gente di merda che popola sto pianeta.
Mi auguro che per qualcuno venga almeno la soddisfazione di prendere i petrolieri a calci nei coglioni e rimandare i giapponesi a mangiare il loro pesce radioattivo del cazzo (Fukushima insegna).

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