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15/03/2012

Terre rare, la sfida Usa-Cina per la tecnologia

Entra in campo Obama. Il contenzioso delle terre rare va avanti ormai da un anno e mezzo, ma adesso anche i vertici del potere Usa prendono posizione e così i media di tutto il mondo ne parlano.
Riassumendo: Ue, Usa e Giappone hanno denunciato la Cina al Wto per le sue restrizioni al commercio di terre rare, diciassette elementi presenti in alcuni minerali e necessari alla produzione di una sfilza di prodotti high-tech, dagli smartphone alle fibre ottiche, passando per le batterie delle auto ibride e i missili telecomandati. Il 97 per cento circa della produzione mondiale di terre rare è cinese.
Pechino ha deciso la riduzione del suo export a più riprese a partire dal 2009, ufficialmente per ragioni ambientali e per limitare lo sfruttamento di una risorsa scarsa.
Nel settembre del 2010, fu poi sancito il blocco totale dell’export verso il Giappone in seguito al fermo di un peschereccio cinese – con arresto del suo capitano – che aveva speronato due motovedette giapponesi presso le isole Senkaku-Diaoyu, arcipelago conteso nel Mar Cinese Orientale.
Oggi, il Sol Levante si unisce a Europa e Usa nel denunciare le misure cinesi come atte a favorire l’industria domestica: la riduzione della disponibilità di terre rare sul mercato internazionale ne aumenta il prezzo e, a cascata, provoca rincari nell’industria high-tech.
Pechino continua a riaffermare le proprie ragioni, sostenendo di aver ridotto non solo l’esportazione di terre rare, ma anche la loro produzione e le esplorazioni a caccia dei pregiati diciassette elementi. Nessuno vantaggio competitivo, dunque. Sull’altro fronte si ribatte che la Cina ha tagliato “solo” del 32 per cento la quota riservata alle imprese domestiche e ben del 54 per cento quella per gli stranieri.
Questi i fatti. Dietro però c’è forse un conflitto più ampio, a tutto campo.
Nonostante gli ingenti investimenti in ricerca & sviluppo, la Cina chiede da anni alle economie più avanzate di favorire il trasferimento di tecnologie di ogni tipo oltre Muraglia: ce n’è bisogno per ammodernare la struttura produttiva, renderla meno energivora senza farle perdere di competitività. E il ministero del Commercio di Washington, ha esplicitamente sostenuto in un comunicato che le restrizioni all’export di terre rare messe in opera da Pechino sono una pressione “sulle aziende Usa e non Usa per traslocare operazioni, lavoratori e tecnologie in Cina”.
Il comunicato evita di dire però che dal 2010, le imprese cinesi hanno investito più di 17 miliardi di dollari in accordi e joint-venture che riguardano il settore delle materie prime negli Stati Uniti e in Canada. Le imprese statunitensi hanno sviluppato nuovi metodi rivoluzionari per estrarre petrolio e gas, ma hanno bisogno di capitali, sempre più scarsi dopo la crisi finanziaria. Le grandi compagnie energetiche cinesi, da parte loro, sono proprio a caccia del know-how made in Usa.
Precedentemente, nel 2005 l’amministrazione Bush aveva vietato alla cinese Cnooc di rilevare la statunitense Unocal, accettando le obiezioni di molti membri del congresso secondo cui l’accordo avrebbe messo risorse strategiche in mani cinesi. Pechino ha quindi cambiato strategia: finanzia partner Usa acquisendo quote di minoranza e intanto trasferisce parte della tecnologia dei partner americani oltre Muraglia. Ma è una strategia sempre esposta alle decisioni politiche di Washington. È questa la vera debolezza cinese.
Così, nel gioco del bastone e della carota, Pechino e Washington si sfidano in una partita che non riguarda tanto l’accesso alle materie prime, quanto la tecnologia necessaria a individuarle, estrarle e lavorarle e, più in generale, tutta l’innovazione. Il quasi monopolio nelle terre rare permette alla Cina sia di attirare tecnologia straniera sia di favorire la propria industria high-tech. I classici due piccioni. In attesa della sentenza del Wto.

Fonte.

Quest'analisi mette impietosamente in luce, seppur trasversalmente, l'estrema sufficienza ed ignoranza con cui l'emisfero Occidentale ha gestito l'apertura del mercato globale alla Cina.
A casa nostra si pensava d'aver fatto il colpaccio: la delocalizzazione selvaggia avrebbe cancellato la grigia classe operaia indigena, tutti sì sarebbero seduti davanti a una scrivania nella propria giornata lavorativa perché tanto il consumismo aveva trovato la quadra nella manodopera cinese, economica, mansueta e virtualmente infinita. Quando sì dice fare i conti senza l'oste...

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