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14/03/2012

Malafinanza, le perdite invisibili dei risparmiatori

Dopo l'11 settembre 2001, ma soprattutto a seguito dello scoppio della bolla speculativa legata ai titoli della new economy a Wall Street e sul resto dei mercati, molti nodi vennero al pettine. Nel solco dell'ottimismo che aveva caratterizzato gli anni precedenti, nella seconda metà degli anni '90 erano cresciute aziende e figure manageriali di rilievo, grazie ad una politica espansiva dell'economia e in alcuni casi anche grazie ad una gestione allegra o creativa della finanza aziendale.

Il caso Enron scoppiò nel dicembre del 2001. Il colosso energetico di Houston, la sesta realtà industriale degli Stati Uniti con oltre 100 miliardi di dollari di fatturato, fece ricorso alla Corte fallimentare distrettuale di New York per ottenere l'amministrazione controllata in base al Capitolo 11 della legge (il famoso Chapter Eleven) e difendersi così dall'assalto dei creditori: quasi 3000 le richieste di saldo delle fatture per complessivi 13 miliardi di dollari.

Ma i soldi in cassa non c'erano. Il buco che si era creato nei conti della società, in maniera fraudolenta, coinvolse i maggiori istituti di credito mondiale. Il crack finanziario del gruppo fu un terremoto che ne scatenò altri, perché il dissesto che ne derivò colpì anche i dipendenti, alcuni enti pubblici, fondi pensione, istituzioni finanziarie e privati cittadini, che nel corso degli anni investirono sui titoli della società, quotata a Wall Street.

La capitalizzazione di Borsa che fu distrutta ammontò, secondo gli analisti, a circa 70 miliardi di dollari. La Sec, la Securuty Exchange Commission, l'autorità di vigilanza sui mercati statunitensi, indagò sul caso ma quando ormai il bubbone era scoppiato. Le responsabilità della vicenda furono attribuite agli amministratori del gruppo, ai manager compiacenti della società di revisione dei bilanci Arthur Andersen e ad alcuni funzionari di banca che, nonostante fossero consapevoli della situazione, sollecitarono comunque l'acquisto di titoli del gruppo.

Una volta dichiarata bancarotta e decretato il fallimento da parte del Tribunale, i creditori e i titolari di diritti nei confronti di Enron ottennero una parziale soddisfazione. Si generò una giostra di ricorsi e di cause che portarono ad un risarcimento dei fornitori ma nulla fu dovuto alla platea degli azionisti. La vicenda Enron stimolò per necessità le autorità di vigilanza e il mondo politico a generare possibili anticorpi e fu messa in moto una macchina legale che portò alla formulazione della legge Sarbanes-Oxley, un atto con rigide norme antitruffa che consentì il conseguente smantellamento della società Arthur Andersen, per esempio.

Tuttavia la vicenda Enron non fu un caso isolato. Le pagine dei giornali si riempirono di storie analoghe, con nomi titolati: Worldcom, Adelphia Communications, Tyco, Cendant e Qwest, solo per citare alcuni tra i più importanti. Lo scoppio della bolla dei titoli in Borsa aveva anticipato di qualche mese l'affioramento di situazioni incresciose, bilanci truccati, debiti, reati contabili che in epoche rosee, di ottimismo, vengono più facilmente occultati, o favoriti, secondo i punti di vista.

Ma cosa insegna la vicenda Enron? Quale lezione trarre da questa storia? Ci sono indubbiamente alcuni aspetti interessanti da porre in evidenza. E sono, se non assurdi, quantomeno paradossali. Intanto, la ricchezza degli Stati Uniti non ha formalmente subito un contraccolpo perché nella valutazione del Prodotto interno lordo si sommano le voci della catena e non si detraggono gli ammanchi per crack finanziari, bancarotte, frodi fiscali. Anzi, le voci di spesa legate alla vicenda sono state inserite nel calcolo e hanno costituito un capitolo della ricchezza del Paese. Ma non solo. C'è una sfaccettatura che merita di essere indagata e da questo singolo particolare è poi possibile fare una valutazione più generale.

Quando scoppiò il caso, il titolo Enron a Wall Street fu prima sospeso e poi tolto dal listino. Nei vari panieri di indici azionari di cui faceva parte, legati ai comparti dell'industria, delle multiutility e dell'energia, il titolo Enron fu cancellato e al suo posto entrò un altro titolo. L'indice azionario continuò a procedere, dimentico della perdita di un figliolo alquanto prodigo. E' questo il punto che si vuole mettere in evidenza. Gli indici azionari tengono sempre conto dei vincenti, mai dei perdenti. Così, mentre i risparmiatori e gli investitori restano scottati con il cerino in mano, gli indicatori del mercato continuano ad andare per la loro strada. Da una parte il buco, il risparmio tradito, dall'altra la corsa di chi resta in pista. Per capire l'aspetto del problema possiamo ricorrere ad un paragone.

Dobbiamo immaginare una classe di studenti che completa il ciclo delle scuole superiori. E supponiamo che il preside dell'istituto abbia stabilito a priori che il criterio di valutazione sia la media dei voti dei promossi che passano l'esame di maturità. Ogni anno si misura il livello di preparazione della classe, e per esteso della scuola, sulla base della media dei voti di coloro che passano l'ultima prova. Sì, d'accordo. Ma i bocciati? Loro, non contano? Ha senso dire che quella scuola prepara molto bene se i suoi studenti migliori hanno voti altissimi? In un certo senso è vero. Ma a patto di dimenticare gli altri, che restano al palo.

Tradotto in economia, gli indici tengono conto solo dei cavalli di razza che ad ogni giro passano il turno. Le azioni che inciampano e si azzoppano vengono eliminate come i cavalli feriti e moribondi. Gli indici di Borsa legati alle Blue Chips (i titoli più importanti e a maggior flottante) misurano un paniere che è più o meno rappresentativo di un andamento particolare ma non della qualità del risparmio. Anzi, tra risparmio e investimenti, c'è proprio una distanza che può essere abissale.

Occorre chiedersi: esiste un indicatore che tenga conto dei buchi e delle perdite create dai dissesti finanziari? E' strano, ma negli Stati Uniti non esiste. Oltreoceano vige la cultura darwiniana che premia i migliori e scarta i deboli senza preoccuparsi di fare i conti su quanta ricchezza effettivamente si è vanificata e quanto pesa la perdita rispetto all'andamento totale degli investimenti. In Europa e in Italia qualcuno invece ci sta provando, correlando da una parte i risparmi investiti e dall'altra gli andamenti di Borsa. E' un'impresa difficile ma necessaria, per non separare sul piano teorico i due binari che nella vita quotidiana si vogliono far procedere per molti aspetti di pari passo.

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