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19/03/2012

Etiopia-Eritrea, giochi pericolosi

È un atto di guerra ma la guerra, al momento, non scoppierà. Nella notte tra giovedì e venerdì, l’esercito etiope ha sconfinato e attaccato tre basi militari eritree: quelle di Ramid, Gelahben e Gemble. Nessuna resistenza, missione facile. Un’azione dimostrativa, quindi, non la prima mossa verso una riapertura delle ostilità tra due Paesi che hanno combattuto una feroce guerra tra il 1998 e il 2000 (70 mila morti, 720 mila sfollati) e che i cui rapporti da dieci anni sono in uno stato di pace armata. L’Etiopia, per dire, ha smentito con la diplomazia ciò che aveva appena dichiarato attraverso il raid delle sue Forze armate. Shimeles Kemal, portavoce del governo etiope, ha rilasciato una dichiarazione con cui precisava che “queste misure (l’attacco) non costituiscono uno scontro militare diretto tra i due Paesi”. Anche Asmara getta acqua sul fuoco, dichiarando di non voler cadere nella provocazione etiope, il cui scopo è solo quello di distogliere l’attenzione dalla “debolezza del regime, dalla violazione del diritto internazionale e dall’occupazione illegale delle terre eritree”.
Resta il fatto che l’attacco di venerdì è il primo vero atto di guerra in dieci anni. Particolare non trascurabile è che sia avvenuto in un giorno con una grande valenza simbolica: il decimo anniversario del pronunciamento della Commissione per i confini tra Etiopia ed Eritrea, con sede all’Aja. Una sentenza che non ha risolto la disputa che oppone i due Paesi sulla definizione dei rispettivi territori: nello specifico, la città di Badme era stata riconosciuta come parte del territorio eritreo eppure l’Etiopia continua ad occuparla, “con il consenso di Stati Uniti e Nazioni unite”, è l’accusa più volte avanzata dal governo di Asmara. Che naturalmente potrebbe reagire. Una reazione se l’aspettano gli analisti che da anni seguono questa regione africana particolarmente instabile. Una risposta che difficilmente avrà la forma di un attacco armato diretto, e questo per due ragioni: la prima è che l’Eritrea non dispone delle risorse militari sufficienti per poter sfidare direttamente l’Etiopia. La seconda è che, in questo modo, darebbe ad Addis Abeba l’occasione per poter gridare al pericolo eritreo, costruendo la cornice ideale per un attacco che verrebbe benedetto dalla comunità internazionale e risolverebbe una questione nata nel 1993, con la secessione dell’Eritrea dall’Etiopia, con cui quest’ultima perse lo sbocco sul mare. Perdita strategica ed economica di immenso valore che Adis Abeba non ha mai metabolizzato.
Non è questo che si aspettano gli analisti: più probabile che Asmara scelga di destabilizzare l’Etiopia giocando sulla scacchiera somala, in quella Somalia precipitato nel caos vent’anni fa e rimasto da allora uno dei principali fattori d’instabilità regionale. In Somalia, l’esercito etiope è intervenuto più volte. I rapporti tra il vertice eritreo e le milizie filo-qaediste di al Shabaab è da qualche anno oggetto di speculazioni: il governo etiope ha giocato questa carta ripetutamente per isolare il regime di Isaiah Afewerki. Le stesse Nazioni unite hanno diffuso un rapporto che ricostruiva la rete dei rapporti tra Eritrea e terrorismo islamico. E sempre l’Onu denunciò il ruolo di Asmara nell’attentato, sventato, che avrebbe dovuto insanguinare il vertice dell’Unione africana ad Addis Abeba, nel gennaio dell’anno scorso. Quella delle guerre per procura, in fondo, è una strategia alla quale i due Paesi hanno fatto ricorso, soprattutto nel passato. Tanto l’Etiopia quanto l’Eritrea hanno dato ospitalità e fornito risorse a gruppi armati che avevano come obiettivo il rovesciamento del governo nemico. Anche questa volta, Addis Abeba ha giustificato il raid contro le tre basi eritree con la necessità di proteggere il proprio territorio dalle incursioni dell’Araf Revolutionary Democratic Unity Front (Ardu), il fronte armato che combatte contro il governo etiope e che mira alla costituzione di uno Stato che riunisca tutte le popolazioni di etnia Araf, sparse tra Etiopia, Eritrea e Gibuti.

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