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26/02/2012

Voglio essere greco

Mentre la Grecia brucia, a Roma impera il fatalismo idiota dei servi. In Italia gli indignati sono spariti, i forconi si sono ammosciati, le destre e le sinistre istituzionali banchettano al centro, Napolitano sermoneggia senza limiti, Monti fa gli inchini alla comunità finanziaria di Wall Street e si fa dire quando pisciare all’imperialista di velluto Obama, e lei, nostra signora Bce, con il grande sacerdote Mario Draghi domina incontrastata.

Teppisti e pecoroni

I pochi, sparuti “teppisti”(1) politici e intellettuali che s’azzardano a far stecca sul coro gregoriano - laude, laude al dio mercato e alla divina Eurolandia - e cioè i soliti revanscisti rossi e neri, gli antagonisti, i signoraggisti, Grillo, Chiesa, i decrescisti, ribelli e cani sciolti vari sono oscurati o ridicolizzati, come da prassi. La masse tace, imbelle, pronta al taglio della gola, già essiccata e afonizzata dalle mazzate torturatrici note come decreto salva-Italia e decreto cresci-Italia.

Per quale motivo non scoppiano non dico rivolte, ma almeno focolai di protesta, come sarebbe naturale aspettarsi contro una tecnocrazia bancaria che aumenta le tasse, fa strame di diritti sociali e per giunta agita il ditino spiegandoci che la merda liberista è oro? Lo ha scritto come meglio non si potrebbe il sempre corrosivo Marco Cedolin (2), e perciò lascio volentieri la parola a lui: «La ragione in fondo è di una semplicità disarmante. Avete mai visto dei cittadini andare a protestare, senza essere stati chiamati a farlo da qualcuno? Che si trattasse di un partito, di un sindacato, di un’organizzazione, di un movimento o di un comitato, alla base di qualsiasi protesta c’è sempre stato un soggetto che chiamava il popolo a raccolta. … Ogni soggetto potenzialmente pericoloso è stato cooptato, affinché si prodigasse per tenere la gente ermeticamente chiusa in casa, magari davanti alla Tv, di fronte a qualsiasi decisione venisse presa».

La favoletta della “medicina amara”

Fatta la diagnosi, procedendo all’inverso descriviamo i sintomi della malattia. Siamo come in una bolla d’ovatta, in cui la realtà che pur viviamo sulla nostra pelle non è compresa perché filtrata da un immaginario completamente falsato, manipolato dai chierici dell’informazione, stravolto da un racconto infantile ammanitoci come unica verità possibile. Questa: there is no alternative, l’austerity è una medicina amara contro cui si può scalciare ma che va ingollata. Un po’ come l’olio di fegato di merluzzo, una tremenda schifezza che un tempo si credeva salutare, salvo poi scoprire che non serviva a un bel niente. Oggi, con le supposte prescritte dal dottor Monti è molto peggio: non soltanto non fanno il nostro bene, ma hanno il criminale difetto di legarci alla catena del mondo globalizzato e dei suoi poderosi business privati. Ci ammazzano di tagli e sacrifici e ci dicono che lo fanno per il nostro bene. Monti e i banksters come novelli Torquemada, la nuova inquisizione sub specie Europae.

Eppure capire dove sta l’inganno non è difficile, basta compiere un comune ragionamento di do ut des, solo spostandolo dal piano individuale a quello collettivo. Quando ciascuno di noi mira ad un obiettivo e questo comporta una serie di sforzi e privazioni, accettiamo di sopportarne il peso se esso ci è chiaro e siamo certi che costituirà un vantaggio palpabile, concreto – e non solo in termini pratici e di tornaconto, ma anche, dio voglia, ideali, nobili. Sacri, appunto. L’etica del sacrificio è doverosa. Non così la retorica, che è retorica appunto perché il sacro per cui ci si sacrifica non è sacro per niente, e non assicura alcuna convenienza, nessun ritorno di maggior benessere, economico o esistenziale che sia. E questo è il caso dell’imperativo categorico che non da oggi, ma da decenni, per lo meno da quando abbiamo i calzoni corti noi che siamo trentenni, i signori del denaro e i loro maggiordomi dei partiti ci fanno passare come inderogabile, immarcescibile, indefettibile: stringere la cinghia, che per molti significa far la fame per un miraggio chiamato “crescita”. Questa benedetta crescita non è mai abbastanza, perché per sua interna logica non ha mai fine, è senza posa, infinita. E così lo diventano anche i torchiamenti, fiscali, lavorativi, sociali a cui veniamo sottoposti dagli illuminati che la sanno sempre più lunga – perché loro capiscono e interpretano per i mortali il verbo delle agenzie di rating, delle banche centrali e di quei benefattori disinteressati e puri di cuore che fanno il bello e il cattivo tempo nelle piazze borsistiche. Siamo schiavi rassegnati ad esserlo e illusi di non esserlo, e questo è tutto.

Reich europeo

Il tabù Europa è un caso da manuale. Ci avevano raccontato, i sapienti europeisti, che l’unione degli Stati del vecchio e caro continente doveva realizzarsi a tutti i costi, ma proprio a tutti, pena un ritorno alle guerre e chissà quali altre immani catastrofi. Risultato: non c’è stata alcuna effettiva federazione politica, bensì un’operazione di eugenetica istituzionale che ha messo una facciata di pseudo-democrazia (il parlamento-parlatoio di Strasburgo, la commissione-specchietto per le allodole di Bruxelles) ad un sostanziale e illegale potere legibus solutus della Banca Centrale di Francoforte, in stato di minorità rispetto all’omologa Fed americana e terminale degli interessi dei grandi istituti di credito e d’affari, specialmente tedeschi. I trattati che hanno costruito l’edificio di cartapesta eurocratico ne hanno modellato i contorni secondo un progetto fatto su misura per le esigenze e le idiosincrasie della Germania. Perciò, economie e società come quella italiana o spagnola, ma anche della stessa Francia, diverse – grazie al cielo – dal rigorismo matematico e ragionieristico di Berlino, sono state letteralmente violentate, costrette ad adeguarsi a politiche di bilancio e del fisco che non collimavano con i propri bisogni, ma con quelli del Reich finanziario. Amato, Ciampi, Prodi – ma mettiamoci dentro pure il Berlusca, che opposizione all’eurocrazia non ne ha fatta mai, vedi ratifica plebiscitaria dell’esiziale Trattato di Lisbona, anno 2007 – erano tutti entusiasti nell’operare alacremente per fare dell’Italia un paese economicamente e politicamente subalterno alla Grande Germania, condannandolo ad una vita di dolori senza una degna contropartita. Questa violenza ha un nome preciso: euro, la moneta col debito intorno. Bell’affare abbiamo fatto, mentecatti europeisti senza se e senza ma… Le fiamme e i saccheggi della Grecia disperata non insegnano nulla, benché avrebbero molto da dirci, poiché la cura omicida che ha fatto stramazzare e impazzire il cavallo ellenico è la stessa che propinano a noi, con tanto di inviati dell’Fmi a monitorare – leggi: controllare, non si sa mai – le scelte del duo Monti-Napolitano. Ma si vede che bisogna proprio giungere a non avere più niente da perdere nel vero senso della parola, per alzare la testa e guardare agli esempi di un’altra via – all’Argentina, all’Islanda, al Venezuela, o almeno alla Gran Bretagna e alla Danimarca, che nell’Ue sono presenti ma si sono ben guardate dall’adottare la moneta unica.

L’articolo dei cretini

E se anche questo non basta e volete una prova del pecorismo italiano che più prova non si può, si consideri il tema che fa da padrone nell’agenda setting nazionale: l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che tutela le maestranze delle aziende con più di 15 di dipendenti dal licenziamento senza giusta causa. C’è un arco costituzionale di pensiero che va da chi vorrebbe abolirlo tout court (un ex ministro Sacconi che si dice ancora socialista pur essendosi tramutato in un ircocervo, mezzo liberista e mezzo catto-talebano) a chi lo vorrebbe modificato senza troppi fondamentalismi, ammettendone comunque la sostanza, che è la possibilità di licenziare per sole cause economiche, ovvero a discrezione dell’imprenditore (un Damiano della sinistra Pd, per capirci). Ora, sinceramente ci appassiona poco il dibattito che si è riattizzato dopo il vittorioso muro che eresse la Cgil di Cofferati nel 2001. È sommamente cretino fissarsi su questo punto, ancorchè altamente simbolico – e i simboli in politica contano parecchio – se poi si lascia correre il bulldozer turbo-liberista a schiacciare tutto ciò che incontra. Voglio dire: che senso ha incaponirsi su un articolo di uno statuto superato e che fa acqua da tutte le parti quando la diga è già rotta da quel dì, dal pacchetto Treu (centrosinistra, 1996) e dalla legge Biagi-Maroni (centrodestra, 2000)? Invece di stare sempre sulla difensiva, la sinistra sindacale dovrebbe giocare d’iniziativa e proporre un sistema di relazioni contrattuali completamente rinnovato. Ma per far questo dovrebbe esistere una sinistra politica degna di questo nome, cioè dotata di una cultura teorica. Discutere di decrescita volontaria, economia locale e sovranità monetaria è come parlare arabo, con gente come la Camusso, ma anche come Landini o Cremaschi, industrialisti di tre cotte. Su questo, come sanno i nostri lettori, abbiamo abbandonato ogni speranza da anni: la sinistra non soltanto è un esempio preclaro di imbecillità, ma oltretutto è pappa e ciccia col padrone, sia consapevolmente quando lo professa in tutta la sua plateale ingenuità (sto parlando di quella cosa denominata Pd), sia quando si ammanta di ultra-conservatorismo retorico da un lato e rivoluzionarismo parolaio e fuori tempo dall’altro (la poetica vendoliana, le pippe vetero-marxiste dei residuali partitini falce e martello).

Vorrei essere greco

Ci sarebbe da dire due parole anche sulla religione che issa la Nato e l’alleanza-sudditanza agli Usa come totem intoccabili ed eterni quando invece sono in rovinoso declino (la sconfitta in Afghanistan contro i Taliban ne è l’emblema), ma mi fermo qui, esausto. Dico solo che vorrei essere argentino, islandese, venezuelano, persino afgano o anche greco, ma italiano no, italiano non vorrei esserlo più. Ma tant’è. L’arma che so usare, la penna, la uso comunque per la mia idea d’Italia e di mondo anche se i miei compatrioti dormono il sonno dei beoti. Aristofane: «Chiunque è un uomo libero non può starsene a dormire».

Note

1. Scriveva Giuseppe Prezzolini a proposito della “Settimana rossa” nel 1914: «Si possono fare rivoluzioni senza “teppa”? Non lo crediamo. Le rivoluzioni non si fanno né con gli studiosi, né con la gente in guanti bianchi. Un teppista conta più d’un professore d’università quando si tratta di tirar su una barricata o di sfondare la porta d’una banca. (…) Con la “gente per bene” il mondo non andrebbe avanti. E se talora è necessario uno strappo, una violenza (“la violenza è la matrice delle nuove società”, disse Marx, e il culto della violenza ci è stato insegnato da Sorel), chi chiameremo a compierla? (…) Un idealista non deve considerarle [le torbide forze che parlano coll’incendio e colla distruzione] come un borghese chiuso nelle quattro assi di quella bara che è suo interesse particolare. (…) la “teppa” di ieri è la nobiltà di oggi. La “teppa” di oggi potrebb’essere la nobiltà di domani», La Voce, giugno 1914.

2. M. Cedolin, “Cambieremo il modo di vivere degli italiani”, 9 febbraio 2012 http://ilcorrosivo.blogspot.com/2012/02/cambieremo-il-modo-di-vivere-degli.html

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