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21/02/2012

'ndrangheta e politica: il connubio perfetto

Pochi giorni fa è ricorso il ventennale dell’inchiesta di Mani pulite. Eppure, a sentire a sentire i leader di alcuni dei maggiori partiti politici italiani e i direttori di famosi quotidiani nazionaliri, “dire che siamo ancora nell’era di tangentopoli è una fesseria” e, in fondo in fondo, se ci guardiamo intorno, “non ci sembra di vivere in un paese di ladri e corrotti” [guarda il video "Sallusti fra le nuvole"].

Ebbene, fermo restando che ognuno vede il paese che vuole vedere, ci sono delle realtà tangibili che testimoniano quanto il mercato e gli affari dell’Italia siano inquinati. Una di queste si chiama ‘ndrangheta. Che non è più, e non lo è da almeno trent’anni, una combriccola di pastori dell’Aspromonte che mangiano ‘nduja e rapiscono qualche riccastro: la ‘ndrangheta è oggi la prima azienda del Paese e ogni anno incassa 25 miliardi di euro con il traffico di cocaina, 6 miliardi con gli appalti truccati, 7 miliardi con armi e prostituzione, 4 miliardi con estorsione e usura. La mafia calabrese che ha ormai ramificazioni in tutta Italia e anche in Canada, Spagna, Germania, Olanda, Stati Uniti, Australia, Colombia, Singapore e Svizzera muove un giro d’affari pari al 4% del nostro PIL. Quasi come il fatturato della FIAT in tutto il mondo.

Tutto questo è possibile anche perché la politica si guarda bene dal combattere la ‘ndrangheta. Eppure, a detta di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto al Tribunale di Reggio Calabria, da anni in prima linea contro le ‘ndrine, basterebbe “riformare dieci o quindici articoli del codice penale… e a quei mafiosi gli faremmo un culo così”.

Di quali siano questi articoli e del perché risultino un ostacolo così grande alla lotta alla criminalità organizzata vi daremo conto nei prossimi giorni. Quello che qui ci interessa, a vent’anni dall’inchiesta che svelò il marcio che s’annidava in tutto il sistema partitico italiano, è ribadire proprio la gravità delle connivenze della politica con le mafie. Connivenze che si spiegano facilmente: le mafie portano voti, un sacco di voti. E per i partiti, perennemente affamati di preferenze, quei voti sono irrinunciabili.

C'è un inchiesta di cui in pochi parlano: Cent’anni di storia, condotta dal pm Roberto di Palma. Uno dei protagonisti principali di quest’inchiesta è tale Aldo Miccichè, factotum del clan dei Piromalli per gli affari politici, tuttora latitante in Venezuela per sfuggire ad una condanna di 25 anni per traffico internazionale di stupefacenti, bancarotta fraudolenta e millantato credito. E c’è un’intercettazione piuttosto interessante. Quella della telefonata tra Micciché e Gioacchino Arcidiaco, altro picciotto calabrese.

Siamo nel dicembre del 2007 e Arcidiaco, confermando a Miccichè che l’indomani in piazza San Babila a Milano si incontrerà con Marcello Dell’Utri, chiede consiglio su come muoversi e su quale atteggiamento assumere nei confronti di uno dei fondatori di Forza Italia, già condannato in appello, a Palermo, per concorso esterno in associazione mafiosa.

E Miccichè risponde in maniera molto perentoria: “Visto che la vicenda Berlusconi sta arrivando in porto, tu spiegagli chi eravamo. L’importante è che capisca chi siamo noi: tu digli che quando Aldo (lo stesso Miccichè) era segretario provinciale della Democrazia Cristiana tutti i comuni della provincia di Reggio… cento erano democratici cristiani. E poi Aldo pigliava 105 mila voti. Fagli capire che la Piana (quella di Gioia Tauro) è cosa nostra. […] Fagli capire che il porto di Gioia Tauro lo facemmo noi. Fagli capire che tutto quello che succede in Aspromonte succede tramite noi. […] Ricordati che la politica si deve sapere fare: ora quindi fagli capire che in Calabria o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Jonica o si muove al centro, hanno bisogno di noi”.

Più avanti, Miccichè spiega al suo interlocutore il motivo dell’incontro con Dell’Utri: “Lui vorrà che si facciano i Centri della Libertà. E tu digli che noi siamo a disposizione. Ma quando deve partire l’operazione, lui deve venire incontro…”. Quello che gli ‘ndranghetisti vogliono in cambio dell’appoggio elettorale è, nel caso specifico, la riduzione del carcere duro (41 bis) al boss Giuseppe Piromalli, arrestato nel 1999 e detenuto nel carcere di Tolmezzo.

Arcidiaco chiede conferma sulla condotta da tenere in questo senso: “Gli dico… questo abbiamo discusso in famiglia… noi abbiamo solo una richiesta, che non è né finanziaria né di mio zio né di altri. E cioè che non tanto su di me, quanto mio cugino, gli venga riconosciuta in qualche forma, in qualche cosa, l’immunità. Che gli venga dato un consolato dello stato russo, vietnamita, arabo o brasiliano non mi interessa”. E Miccichè conferma: “Questo lo possiamo fare”. Poi Arcidiaco risponde: “Gli dico… ho avuto autorizzazione di dire che possiamo garantire [i voti di, n.d.r.] Calabria e Sicilia”. E Miccichè: “Fagli capire, a Marcello, che c’è una tradotta di calabresi che lì a Milano lo votano”.

Ma non è tutto. Nella sentenza Cent’anni di storia, le cui motivazioni sono state depositate nel febbraio 2010, emerge chiaramente che Dell’Utri parla più volte col latitante Miccichè e che tra i due esistevano “da tempo rapporti amichevoli”, tanto che “non solo il Miccichè chiama affettuosamente il suo interlocutore ‘tesoro’, e parla della madre di Silvio (Berlusconi, n.d.r.), ma addirittura chiede al senatore medesimo una mail personale dell’odierno (ormai ex, n.d.r.) Presidente del Consiglio, per mandargli alcune indicazioni relative ‘alla gente di qua… che è molto importante… ai fini suoi…’ con verosimile riferimento agli italiani residenti all’estero che avrebbero potuto votare per il suo partito”.

E, sempre secondo la sentenza, lo scopo di Miccichè era proprio quello di agevolare la detenzione a Giuseppe Piromalli. Sono gli stessi magistrati a dire che Miccichè confida al figlio del boss, Antonio Piromalli, di “voler tentare anche la strada della massoneria, cercando di contattare un giudice molto importante, e di battere pure una strada con il Vaticano, contro quel ‘maledetto 41 bis’; consiglia, in ultimo, all’altro di rivolgersi all’occorrenza all’onorevole Mario Tassone, quale soggetto da cui potrà ricevere ausilio”.

E Mario Tassone, deputato eletto nelle file dell’UDC, qualcuno di voi lo ricorderà per i suoi famosi pisolini in diretta. Ma va sottolineato che Tassone era il vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Oltre a esponenti di spicco di PDL e UDC, c’è anche un terzo politico che entra in campo in questa squallida faccenda. Cioè il Guardasigilli del secondo governo Prodi, Clemente Mastella. Nella sentenza i magistrati scrivono infatti che “Miccichè è risultato essere in grado di prestare piena fede agli impegni assunti, dimostrando a un tempo di avere effettivi contatti sia con l’allora Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, che con il Senatore Marcello Dell’Utri, con i quali intesseva da tempo rapporti amichevoli e confidenziali”. E ancora: “Che i rapporti tra il Micciché e il ministro Mastella fossero reali e amichevoli, e tutt’altro che inventati, è pienamente testimoniato dalla conversazione telfonica del 05.03.2008 […] nel corso della quale, dopo uno scambio di battute affettuose tra i due, il Micciché non solo si rivolge all’altro appellandolo ‘Clemente mio’, ma si impegna pure a fornirgli forti appoggi elettorali ‘sul Lazio e su Roma’”.

Ora, dopo aver snocciolato qualche dato sulla potenza economica della ‘ndrangheta, e dopo aver evidenziato i rapporti di vicinanza tra politica e criminalità organizzata, quando incontrate qualcuno che vi dice che l’Italia in fondo è un Pese onesto e che i partiti non sono tutti uguali, raccontategli una storia come questa.

La ‘ndrangheta è una realtà che continuiamo a sottovalutare, ma che condiziona la nostra vita più di quanto possiamo immaginare. Infatti, come ama ricordare Giulio Cavalli, noi possiamo anche non interessarci agli ‘ndranghetisti, ma loro sicuramente si interessano a noi.

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