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24/02/2012

Cina, picconata al capitalismo di Stato

Arriva una nuova spallata neoliberista in vista del futuro grande cambiamento della leadership cinese. Il Development Research Center (in cinese Guówùyuàn fāzhǎn yánjiū zhōngxīn), un think tank che dipende direttamente dal Consiglio di Stato (leggi “governo”), ha coprodotto con la Banca Mondiale un rapporto che prevede una crisi della Cina se non si metterà mano al settore delle grandi imprese statali. Il documento “China 2030”sarà presentato lunedì prossimo, ma il Wall Street Journal ne anticipa i contenuti: sostiene che il governo dovrà dismettere progressivamente le proprie quote e affidare la gestione delle imprese a banche d’investimento. Detto in altri termini, chiede alla Cina di rinunciare al modello economico che l’ha fatta crescere a ritmi vertiginosi per trent’anni: il capitalismo di Stato.
Il fenomeno – osserva il Wsj – è stato definito “trappola del reddito medio” ed è comune a molte economie in via di sviluppo: molto semplicemente, quando si raggiunge un reddito soddisfacente per la maggior parte dei cittadini, i ritmi di crescita rallentano.
Per la Cina, il problema potrebbe essere particolarmente grave a causa della pressione demografica: tra 2008 e 2009, con l’esplosione della crisi economica globale, era già stato calcolato che per dare occupazione e un reddito accettabile ai milioni di nuovi lavoratori che ogni anno si affacciano sul mercato, fosse necessario non scendere sotto l’8 per cento. Pechino ce la fece grazie al piano di rilancio varato dal governo, che puntava soprattutto su infrastrutture e settore immobiliare.
A distanza di tre anni, “China 2030” – che secondo il Wsj è stato realizzato proprio per influenzare la prossima generazione di leader – indica una soluzione diametralmente opposta: le imprese statali devono smetterla di controllare settori chiave dell’economia chiudendo le porte della Cina alla concorrenza internazionale. Devono anche finirla di intercettare buona parte del credito, prosciugando di fatto le opportunità per le piccole-medie imprese private. [Si veda a questo proposito il reportage “La paura di Wenzhou” sul numero di marzo di E-il mensile].
Solo così l’economia cinese potrà ristrutturarsi in direzione di una maggiore efficienza. Se infatti esistono imprese di Stato all’avanguardia nella conquista dei mercati stranieri, veri e propri “campioni” da esportazione, la logica che informa tutto il mondo delle state-owned enterprise è più politica che commerciale. Tipico è il caso del credito: le banche di Stato devono prestare soldi alle imprese di Stato, a prescindere dalla loro efficienza. Si tengono così in piedi baracconi improduttivi e si sottraggono risorse ai privati.
Le conseguenze politiche del dossier sono al momento imprevedibili, anche se tra i suoi autori c’è  Liu He, consigliere del comitato permanente del politburo (la stanza dei bottoni del potere cinese) e  redattore, insieme ad altri, dell’attuale piano quinquennale. Si dice che Liu goda di una certa fiducia anche presso il probabile futuro leader, Xi Jinping. Ma è forse ancora più importante sottolineare che, ormai da tempo, le correnti neoliberiste all’interno del Partito comunista – un immenso contenitore dove c’è tutto e il contrario di tutto – sembrano all’offensiva: fa fede e l’apertura di Pechino al credito privato e alle pratiche finanziarie più speculative.
In Cina, il conflitto tra “neoliberisti” e “socialdemocratici” ha una definizione tra il poetico e il prosaico (la contraddizione aristotelica è roba nostra): i primi sono quelli che vogliono “far crescere la torta”; gli altri, quelli che vogliono “dividerla in più fette”. Dopo gli anni in cui la leadership era in mano a pragmatici tagliatori di fette, sembrerebbe giunto il momento di una nuova aggiunta di lievito. Nel caso, bisognerà valutarne le conseguenze sociali.

Fonte.

Un articolo illuminante per comprendere le dinamiche economico finanziarie che hanno segnato e rovinato la nostra vita negli ultimi 20-30 anni.

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