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29/02/2012

L'Iran contro il suo presidente

Non si può dire che le elezioni parlamentari del 2 di marzo siano l’evento più atteso nell’instabile panorama geo-politico iraniano. Nonostante ciò, la prossima chiamata al voto per spartire i 290 posti del Majlis (Parlamento) ai 3.440 candidati in lizza svela un interessante slittamento di potere in seno allo statico sistema partitico iraniano.
Lontani sono i tempi in cui iraniani dalle diverse appartenenze sociali e politiche si riunivano sotto un’unica bandiera inneggiante libertà e democrazia dopo le presidenziali truccate del luglio 2009. L’Iran avanguardista sembra essersi assopito – in parte per la lunga serie di maltrattamenti, restrizioni, coercizioni ai quali è stato sottoposto in questi tre anni e in parte per la mancanza di un leader rappresentativo – e, sia la fazione riformista di Khatami, seppur con qualche disertore, sia i sostenitori di Mousavi e Karroubi, i due volti pubblici del ‘Movimento Verde’ trattenuti agli arresti domiciliari da un anno ormai, hanno deciso di boicottare le prossime elezioni.
Se una vera opposizione non è presente, ciò non vuol dire che lo scenario politico restante sia omogeneo. Affatto. Le elezioni parlamentari del 2 marzo fungono da cartina di tornasole dello (s)bilanciamento interno di potere nella Repubblica Islamica Iraniana e preparano il terreno per le elezioni presidenziali che si terranno a luglio 2013.
La selezione dei candidati alle parlamentari è avvenuta il dicembre scorso secondo i discutibili criteri del ministro degli interni e la supervisione del potente Consiglio dei Guardiani. Eliminati gli elementi avversi al regime, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è emerso come l’ultima scomoda pedina all’interno del composito scacchiere conservatore.
Come fonti iraniane riportate da Al-Akhbar affermano, “la frammentazione in seno al campo conservatore è dovuta alle chiare divisioni tra i sostenitori di Ahmadinejad e il gruppo cosiddetto dei ‘fondamentalisti’ artefice della sua salita al potere”.
Se Ahmadinejad, ‘umile’ uomo del popolo dai saldi valori tradizionali, aveva trovato l’appoggio incondizionato della Guida Suprema Khamenei nelle lontane presidenziali del 2005, il mutuo accordo tra i due ha subito una brusca svolta nell’aprile 2011. La base del disaccordo giace già in quel lontano 2005, quando Khamenei si era fatto ingannare dall’apparente mancanza di sostegno popolare ad Ahmadinejad e aveva deciso di accoglierlo sotto la sua ala protettiva. Per contro, il futuro presidente aveva strategicamente stretto a sé una corte di veterani e ideologi formatasi durante l’aspra guerra contro l’Iraq e, una volta ottenuto il potere grazie a Khamenei, aveva assegnato loro le poltrone migliori. Dalle elezioni del 2009, dove Khamenei si è trovato costretto a supportare Ahmadinejad per evitare di soccombere al potere riformista, il rapporto tra i due uomini dalle pari ambizioni è degenerato progressivamente.
Lo scorso aprile ecco la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Prima Ahmadinejad licenzia il capo dei servizi segreti Heydar Moslehi e Khamenei risponde rovesciando l’ordine impartito e ristabilendo il suo personale controllo su un ministero dalla fondamentale importanza. Quindi, Ahmadinejad licenzia tre dei suoi ministri ma il Consiglio dei Guardiani dall’assoluto potere costituzionale lo taccia di aver esercitato un potere che non gli spetta. Nei mesi seguenti si susseguono scandali di frode e accumulamento di denaro pubblico – mai peraltro verificati – ai danni di Ahmadinejad e compagni.
Il tentativo del presidente Ahmadinejad di rafforzare la propria autorità personale si scontra oggi sia con il suo elettorato, che nel 2005 e poi ancora nel 2009 aveva creduto alle promesse di rinascita economica ma è stato penalizzato dalle sanzioni economiche seguite all’azzardata politica estera di Ahmadinejad, sia con la Guida Suprema che, in un regime teocratico come quello iraniano, ha potere assoluto non solo su questioni di ordine religioso ma anche e soprattutto statale.
Dopo la dipartita dell’Ayatollah Yazdi dovuta ad incomprensioni interne con il presidente, alle prossime elezioni parlamentari la fazione politica fedele ad Ahmadinejad non avrà alcuna guida spirituale a tesserne le lodi. Per Ahmadinejad e i suoi non si mette bene e, secondo ciò che riporta Al-Akhbar, “se gli uomini del presidente dicono che si aspettano di ottenere non meno di 100 seggi in parlamento, l’opposizione è convinta che si possono ritenere fortunati, se ne vincono 20”.
Le restanti fazioni politiche in gioco costituiscono due simili alternative a una leadership di stampo islamico fondamentalista.
Il più largo consenso va al Fronte Unito per i Fondamentalisti, creato dal volere del capo dell’Assemblea degli Esperti, Ayatollah Kani, e da clerici influenti con il supporto della Guardia Rivoluzionaria e dei Basiji (gruppo paramilitare artefice delle violenze scoppiate nel 2009). Questo gruppo politico ha mire presidenziali e, per tale motivo, sta stringendo alleanze con fondamentalisti di altri fronti, conservatori tra cui Ahmadinejad e perfino alcuni riformatori.
Il fronte Sumoud (Fermezza) è il più integralista tra i due ed è critico nei confronti del Fronte Unito per i Fondamentalisti e delle sue relazioni con gruppi politici più moderati, ma in particolare con Ahmadinejad. Il Sumoud vanta la protezione della Guida Suprema – da qui deriva la sua graduale avversione nei confronti del presidente – e si avvale del supporto di una figura pubblica come il disertore Ayatollah Yazd.
Se Ahmadinejad stringesse alleanze sotto banco per ottenere più seggi alle prossime elezioni, o se la Guida Suprema convenisse che è ‘nell’interesse del paese’ spargere tali voci tra i candidati, le fazioni fondamentaliste metterebbero in atto quello che hanno già espresso verbalmente: fare fronte comune contro “l’impostore”.
In Iran di rado le cose avvengono per volere di qualcuno che non sia la Guida Suprema e il Consiglio dei Guardiani. Qualora la situazione storico-politica – appesantita dalla minaccia militare congiunta d’Israele e Stati Uniti – lo richiedesse, le cariche supreme non impiegherebbero molto ad abbracciare una politica repressiva e ultra-conservatrice e a sostituire la Repubblica Islamica Iraniana con una temibile teocrazia. Con gravi ripercussioni sia a livello nazionale che globale.

Fonte.

No TAV: come si continua?

In serata è finito il blocco della Tangenziale di Torino, forse l'azione più incisiva della giornata insieme al blocco dell'A32. E' stata una giornata di iniziative prese di istinto sull'onda della rabbia per quanto accaduto a Luca Abbà - caduto dal traliccio durante l'intervento della polizia per espropriare i terreni su cui va costruita l'Alta velocltà - ma anche per aver dovuto subire l'ennesima pressione subito dopo la grande manifestazione di sabato scorso. Però nel dibattito di queste ore si percepisce anche l'esigenza di guardare più avanti.«Dobbiamo continuare a resistere ma dobbiamo organizzarci meglio dice, ad esempio, Alberto Perino, forse il leader No Tav più riconosciuto, durante l'assemblea al presidio di Chianocco). «Non è possibile - ha spiegato in assemblea trasmessa in diretta streaming sul web - avere dei momenti in cui siamo 300 persone e altri in cui siamo in 20. Bisogna cercare di organizzarci e esserci in numero sufficiente nell'arco delle 24 ore». Perino ha specificato che questa «è l'occupazione più lunga che abbiamo mai fatto». Poi il leader No Tav ha sottolineato che il movimento sta organizzando altri metodi di lotta «che qui ovviamente non diciamo. Faremo delle azioni improvvise che renderanno la vita difficile a chi vuole considerarci un parco giochi o degli indiani da spremere». Queste persone, ha concluso «non hanno capito niente di noi o della Val di Susa».
Le dichiarazioni di Perino giungono dopo che per tutta la giornata si sono sentite le profferte di dialogo da parte dei vertici istituzionali a partire dal ministro dell'Interno, Cancellieri (a cui risponde nel merito il Legal Team No tav, nel testo che pubblichiamo qui sotto).
"Dialogo" e "rasseneramento degli animi" sono le parole d'ordine ma dietro la proposta del dialogo - da qualunque parte arrivi, Bersani compreso - c'è di fatto la richiesta al movimento di deporre le armi e di accettare la costruzione della linea ferroviaria. A dirlo con chiarezza è il ministro competente, Corrado Passera, secondo cui il dialogo è necessario "ma i lavori devono continuare come previsto". Appunto.
Intanto continuano in tutta Italia le iniziative di solidarietà come il blocco del treno ad "alta velocità" a Lecce e altre manifestazioni sparse. Ma come si continuerà? Con azioni simboliche, o più concrete, fatte a macchia di leopardo con l'obiettivo di fare danni concreti alle ferrovie e, in generale, a tutti coloro che hanno grandi interessi privati nell'affare Tav? E' una strategia che può consentire di allargare la mobilitazione e di reggere uno scontro così duro? Perchè ormai è chiaro che il governo e il Parlamento, non sono disposti a fare un passo indietro sotto la pressione di una mobilitazione e di un movimento popolare. Lo spiegava stamattina con chiarezza su Repubblica un editorialista, democratico e progressista, come Giorgio Galli secondo cui in questo momento politico non si può consentire uno smacco delle decisioni prese nelle istituzioni democratiche nazionali. Se vince la Valle, è la conseguenza implicita, possono vincere decine e decine di altre rivendicazioni "corporative". Perché la resistenza della Val di Susa è equiparata, nell'establishment dell'era Monti, alle richieste delle categorie corporative e alle rivendicazioni di bassa lega che non vedono "l'interesse generale". Anche il gesto di Luca Abbà è visto come una "cretinata" che non merita biasimo - si vedano le campagne di Libero e Giornale - e non come il gesto, magari disperato, di chi si è abbarbicato alla propria terra che rappresenta la propria vita. La democrazia abita anche in quella Valle e pervade quel movimento. Ma questo non fa parte del dibattito.
E allora bisognerebbe davvero avere un respiro più generale. Non abbiamo ricette o proposte e non spetta a noi darle. Ma trovare il modo efficace per dire davvero che "La valle non è sola" è forse oggi il modo più utile per difendere questo movimento, impedire che si avviti nel corpo a corpo solitario con lo Stato e per dare alla lotta contro Tav e Grandi opere quel respiro generale che si merita.

Sulle dichiarazioni del ministro Cancellieri
Il Ministro Cancellieri, sul grave incidente che ha colpito il Sig. Abbà ha comunicato che “è un fatto molto grave e triste perché tocca una giovane persona: su questo ci vuole una forte riflessione e molto dialogo, ma bisogna anche tenere conto delle scelte fatte con assoluta coscienza e attenzione”.
Bene, sulla dichiarazione “scelte fatte con assoluta coscienze ed attenzione” siamo a replicare che ciò non è vero.
l’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici ha constatato l’effettivo “caos” in riferimento alla normativa applicabile. In molti atti ed in particolare lo stesso Ministero delle Infrastrutture, con documento del 2007, ha indicato, quale procedura da seguire, la legge ordinaria e non la legge obiettivo. Sul tema una delibera del CIPE del 2009, avente ad oggetto le opere strategiche di cui alla legge obiettivo, ha escluso l’applicabilità della predetta legge all’opera della NLTL.
Non è esistita alcuna coscienza ed attenzione nella ricomposizione dell’Osservatorio, ipotetico luogo di confronto e partecipazione, in quanto la Comunità Montana Valle di Susa ne è stata esclusa con un DCPM …. motivando tale esclusione con la circostanza che la Comunità Montana “non ha la sensibilità politica ed istituzionale atta a rappresentare la comunità della Val di Susa”.
Non è stata svolta alcuna gara d’appalto nonostante nella richiesta di finanziamento del 2007 fosse espressamente prevista.
il CUP attribuito (J41C07000000001) nella delibera cipe n. 68/2010 (tunnel Chiomonte) è identico al CUP della AV/AC Milano Verona che nulla c’entra con la NLTL
la LTF non ha alcun rispetto della giurisdizione italiana e avanti al TAR Piemonte ha opposto di non essere soggetta alla giurisdizione predetta. Sul punto il Tar (sentenza Tar Piemonte n. 113/2012) ha così risposto all’eccezione di LTF: “…La tesi propugnata da parte resistente pare presupporre una sorta di non prevista immunità di LTF in relazione ad attività di certa rilevanza pubblicistica e procedimentale nell’ambito del territorio nazionale ed è quindi infondata…”
Come sempre disponibili ad inviare gli atti comprovanti queste brevi osservazioni.

Fonte.

Democrazia o bluff pilotato da bande internazionali?

Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra: sono analfabeti totali. Trentotto su cento lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta semplice e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione, ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona indecifrabile. Tra questi, il 12 per cento dei laureati. Soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”.

L’articolo, reperibile in vari siti internet, si rifà ad uno studio condotto a suo tempo dall’Istituto Canadese di Statistica in collaborazione con l'OCSE ed è stato illustrato dal pedagogista Tullio De Mauro. I suoi contenuti sono stati rielaborati di recente da Piero Angela nel suo libro, "A cosa serve la politica", Mondadori, Milano 2011.

Scrive Angela: L’indagine, compiuta su un campione rappresentativo di cittadini, consisteva in sei questionari concernenti la lettura, la scrittura, e il calcolo.

Le risposte venivano classificate in cinque livelli: il 4° e il 5° livello comprendevano coloro che  avevano conseguito un risultato buono, o ottimo, il 3° livello un risultato mediocre, il 1° e il 2° erano coloro invece a rischio di analfabetismo. Il quadro, in dettaglio,  è il seguente: il 5 per cento della popolazione non arriva neppure al 1° livello, cioè è letteralmente analfabeta. Ciò vuol dire che il numero degli analfabeti in Italia supererebbe nettamente i due milioni! In precedenti indagini risultava un numero inferiore (700 mila), ma derivava da un’autodichiarazione, non da un test reale.

Al 1° livello (rischio di analfabetismo) si trova il 33 per cento degli italiani. E un altro 33 per cento si ferma al 2° livello.

Ciò significa che complessivamente oltre il 70 per cento degli italiani (il 71 per cento) non arriva neppure al 3° livello, cioè alla mediocrità!… Solo il 20 per cento si situa nella fascia sopra la mediocrità, e pochissimi raggiungono il 4° e 5° livello”.

L’analisi si presterebbe a mille e una considerazioni, ma preferiamo soffermarci sulla più elementare. E’ evidente che dei livelli culturali simili non permettono alla stragrande maggioranza delle persone di “orientarsi nella vita” (era questo l’obiettivo dell’indagine), costringendoli a subire l’oppressione di potenti mezzi di informazione che condizionano ogni loro scelta.

Non è forse un caso che, ad esempio in  politica, poche parole d’ordine, ripetute con martellante insistenza abbiano condizionato le masse nell’esprimere un voto che, proprio per queste caratteristiche, non poteva assolutamente definirsi “libero e democratico” come si è cercato di far credere.

Negli anni di piombo (per non allontanarci troppo dal momento attuale) la Democrazia cristiana ha potuto tranquillamente governare, oltre che con i mezzi che deteneva, unicamente barcamenandosi tra gli “opposti estremismi”.

Una volta caduta in disgrazia per una serie di coincidenze la prima repubblica, la Lega e PDL sono subentrati al vecchio regime promettendo un cambiamento che si fondava su alcune parole d’ordine ampiamente condivise dalla gente (difesa delle identità, liberismo economico, lotta all’immigrazione selvaggia) urlate ai quattro venti da una pletora di media asserviti. Non è cambiato molto con Monti, portato al potere dai potentati economici internazionali, in un momento in cui la partitocrazia  aveva raggiunto i livelli minimi di gradimento popolare, con la promessa di  “salvare l’Italia dalla bancarotta”; in realtà foraggiando con i soldi dei cittadini i maggiori  responsabili dello sfascio economico e produttivo capitalista.

Le potenti iniezioni di evidenti menzogne non scuotono minimamente una popolazione che, specie di questi tempi, ha altro cui pensare. Inebetito da crisi economica e ignoranza, il popolo crede a tutti i ciarlatani che si profilano volta a volta all’orizzonte. Solo per fare qualche esempio, come può un partito che parla di sovranità e indipendenza della nazione o di parti di essa (Padania),  e come possono partiti di sinistra nati all’ ombra di parole d’ordine come tutela del proletariato o antimperialismo, condividere e foraggiare in ogni parte del mondo  “aggressioni militari” a fine di lucro gabellandole per “missioni di pace”?

Possono. Perché la democrazia non c’è ed il popolo non ha gli strumenti culturali adeguati per opporsi a queste nefandezze.

La soluzione del problema consiste nel riuscire a togliere a questa casta di  usurai, unico e vero nemico dopo la caduta delle ideologie, il controllo pressoché assoluto dell’informazione, aprendo la strada ad una  crescita culturale ed al ritorno ad un programma di vera socialità. Altrimenti assisteremo ad una ribellione violenta ed inarrestabile di masse sempre più numerose di schiavi in un mondo globalizzato che – forse qualcuno non se n’è ancora accorto – non è più quello degli archi, delle frecce e delle riserve indiane.

Fonte.

L'ignoranza è forza diceva quel tale.

Fukushima un anno dopo, scomode verità e rimozione

11 marzo 2011. A distanza di quasi un anno dal disastro nucleare, è già scattato il meccanismo di rimozione. È questa una delle tre conclusioni a cui giunge il rapporto “Fukushima, un anno dopo” di Greenpeace.
Eccole riassunte:
primo. Le autorità giapponesi e i gestori dell’impianto (Tepco) conoscevano i rischi, ma li hanno sottovalutati;
secondo. Il disastro si è rivelato comunque superiore a ogni ipotesi fatta a tavolino;
terzo. A distanza di un anno, le vittime non sono state ancora indennizzate. È scattata la rimozione, appunto.
Alla rimozione si accompagna la non trasparenza. Nei giorni di Fukushima infuriarono le polemiche contro Tepco e contro il governo di Naoto Kan – costretto alle dimissioni a settembre – che continuavano a minimizzare il disastro. Di quelle ore resta un’immagine datata 16 marzo. Un gruppo di reporter sta assistendo all’ennesimo briefing della Tepco e qualcuno chiede se sarà versata acqua di mare sui reattori di Fukushima per evitare la loro fusione. Il responsabile della manutenzione dell’impianto, Masahisa Otsuki, risponde che “la compagnia sta considerando questa ipotesi”. Nello stesso istante, uno schermo lì vicino trasmette l’immagine di un elicottero che prende il volo con una cisterna d’acqua appesa sotto la pancia. Al bombardamento di domande dei giornalisti, i funzionari della compagnia rispondono: “Ci scusiamo, dobbiamo fare una verifica”.
Oggi, un articolo del New York Times cita l’inchiesta della Rebuild Japan Initiative Foundation, un gruppo indipendente di ricercatori e scienziati giapponesi, secondo cui i leader del Paese non avevano minimamente idea di quale fosse la portata del rischio nucleare e in segreto prendevano in considerazione addirittura la possibilità di evacuare Tokyo. Ma ciò nonostante continuavano a minimizzare in pubblico.
La rimozione “alla Giapponese” non è cosa nuova. Ne avevamo già parlato lo scorso agosto, in occasione dell’ennesimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki celebrato però nel cono d’ombra del nuovo disastro nucleare.
Era stupefacente, nei giorni di Fukushima, ascoltare alcune voci dal Paese traumatizzato. Perché il popolo giapponese ha accettato il rischio nucleare? “Perché ci hanno raccontato delle bugie”, rispondevano. Come se le due grandi bombe non ci fossero mai state.
All’indomani della guerra, il Giappone rimosse il dolore di un gruppo, gli hibakusha (“sopravvissuti”), per la necessità di ricostruire il Paese nel quadro di una coesistenza coatta con chi l’aveva sconfitto, gli Usa. Non fu solo vergogna, dunque. Rimozione e coraggio, vergogna e dignità, nel Sol Levante viaggiano a braccetto.
Ne scaturirono l’impressionante boom economico ma anche la contraddizione che ha preparato il terreno a una nuova tragedia nazionale: la scelta del nucleare come motore dello sviluppo, proprio nel Paese che aveva vissuto le conseguenze dell’atomo sulla propria pelle.
Oggi, la gente di Fukushima, come vecchi hibakusha, rischia l’oblio sull’altare di una nuova rinascita o, semplicemente, per l’istinto di conservazione dell’establishment politico-economico. Fino al prossimo disastro.

Fonte.

Il morto invocato da Manganelli e l’illegalità dell’azione dell’allargamento

“Siamo alla vigilia delle prime azioni davvero invasive, andremo a togliere i terreni e crescerà il dissenso. Non siamo per nulla soddisfatti di come sono andate finora le cose, non ha funzionato la prevenzione”

“Ora andremo a togliere i terreni, che peraltro sono stati venduti a centinaia di acquirenti, aumentando i destinatari delle notifiche e del dissenso“

“cercano il morto…”

Queste erano le dichiarazioni del capo della Polizia (dirigente più pagato in Italia) Manganelli pochi giorni fa parlando della Valle di Susa. Due cose rigiravano in ogni sua analisi: gli espropri e il morto. Il famoso morto che vorrebbero da Maroni al Sap arrivando al super poliziotto. Il morto che stamattina avevano quasi trovato e del quale la responsabilità è tutta loro.
Per ora le condizioni di Luca lo danno fuori pericolo e noi ci auguriamo con tutto il cuore, che migliorino ancora, ma quanto avvenuto questa mattina è gravissimo e le responsabilità vanno ben evidenziate (la situazione di Luca è comunque molto grave).
Il blitz di oggi è avvenuto dopo una manifestazione di oltre 70.000 persone che hanno partecipato ad un corteo che chiedeva lo stop dei lavori, al quale i sindaci della Valle e la Comunità Montana hanno affidato molto perchè mai presi in considerazione nè dai tavoli istituzionali dai quali vengono esclusi, nè dal nuovo governo.
Avevamo avuto delle informazioni che ci portavano a lanciare un allarme generale di 24/48 ore, che le forze del cosidetto ordine hanno voluto anticipare tentando di prenderci alla sprovvista e agendo in maniera rapida, decisa e supportata da centinaia di uomini e mezzi come mai si erano visti in Valle.
Alla Maddalena vige lo stato di polizia, non quello normato dal sito di interesse nazionale (che nessuno sa ancora cosa significhi), ma quello dove la Questura e il Ministero dell’Interno, con la copertura della Prefettura decidono il bello e il cattivo tempo, in barba a qualsiasi diritto costituzinale. Per fare l’azione di esproprio vi erano dei passaggi formali e burocratici che dovevano essere rispettati, mentre questo non è avvenuto. La copertura legale all’azione delle FFOO è stata data dall’ennesima ordinanza prefettizia che per scopi di ordine pubblico si arroga il diritto di decidere su qualsiasi cosa. Non servono opposizioni legali e ricorsi al Tar, il Prefetto da tempo il via libera a qualsiasi atto militare sul territorio della Valle di Susa come se niente fosse, come se questo fosse normale.
L’atto che ha portato Luca a ferirsi in tal modo è un atto di resistenza pacifico che è stato portato alle estreme conseguenze dagli agenti che lo hanno inseguito e pressato in modo che salisse più in alto. Non possiamo e non vogliamo parlare di incidente, perchè se Luca era lì era perchè voleva come tutti noi e come in tutte le altre occasioni, difendere la Valle. Se ora si trova al Cto in condizioni gravissime invece è la conseguenza del morto invocato dai poteri dello stato, deve essere chiaro sempre. Chi ha dato l’ordine dell’allargamento, chi lo copre politicamente, chi ha organizzato il blitz sono i soli responsabili di questa situazione
Il movimento notav non farà un passo indietro e la mobilitazione si sta già dispiegando.


Mi correggo, la relazione dei servizi segreti presentata dal Copasir è la giustificazione di una militarizzazione politica già ampiamente in atto in Italia.

Crisi economica miccia per l’antagonismo e rischio infiltrazioni mafiose nel nord Italia

L’area anarco-insurrezionalisti, ma anche gli interessi della criminalità organizzata legati alla crisi economica. E ancora il terrorismo islamico, e il rischio della diffusioni di armi in arrivo dalla Libia dopo la caduta del regime di Gheddafi. Questi i punti principali toccati dalla relazione dei Servizi segreti italiani arrivata oggi in Parlamento.

La crisi economica, dunque. Ritenuta dal movimento antagonista una “favorevole opportunità” per “radicalizzare il disagio sociale”. Ma la congiuntura appare anche “destinata ad accrescere i margini di infiltrazione criminale nel tessuto produttivo e imprenditoriale”. Sul fronte delle cosche il Copasir avverte che ”i sodalizi mafiosi sono intenzionati a proiettare le loro attività criminali verso le regioni più ricche del centro nord’’ ed è “prevedibile” che “incrementino la ricerca di contatti e mediazioni per l’inserimento di propri referenti nei circuiti decisionali territoriali”. In particolare “i gruppi ‘ndranghetisti appaiono determinati a intensificare l’esercizio di pressioni collusive e corruttive volte a condizionare le strutture amministrative di governo del territorio non solo nella regione di origine, ma soprattutto in quelle di proiezione del centro-nord, al fine di inserirsi negli appalti e subappalti relativi alle più importanti opere pubbliche, specie quelle stradali, autostradali, ferroviarie e portuali”. Riguardo, invece, alla camorra, il cartello casalese “ha sviluppato cospicui interessi economici” specie “in Emilia Romagna, Lazio, Umbria e Abruzzo”.

Inoltre resta alto il rischio per un’emulazione nei confronti delle Brigate rosse. Non è escluso, infatti, che reduci delle Br o soggetti comunque attratti dalla lotta armata “tentino di aggregarsi per eseguire e rivendicare attacchi, anche se non di elevato spessore, contro simboli del potere costituito”. I nostri servizi segreti definiscono l’esperienza brigatista in una “fase critica” poiché i suoi seguaci sono “numericamente esigui, frammentati e marginali”. Ma ciò non significa che la minaccia sia scomparsa. La crisi economica viene infatti vista in quegli ambienti come “sintomo dell’ineludibile declino del capitalismo”: per gli irriducibili e gli emuli delle Br, dunque, ci sono le “condizioni favorevoli” per alimentare lo scontro tra borghesia e proletariato. Ed infatti proprio dagli irriducibili chiusi nelle carceri, scrivono gli 007, sono arrivate “indicazioni” a chi è fuori di “orientare in una prospettiva di classe” i conflitti sociali. “Sembra dunque emergere la possibilità che i circuiti in questione – affermano i servizi segreti – intensifichino gli sforzi nei confronti delle nuove leve, sensibili alla lotta radicale, per favorirne la maturazione politica” ma anche per attirarle verso “progetti eversivi di lungo periodo”. In questo quadro si collocano i possibili nuovi attacchi. Che avrebbero un duplice obiettivo: “Mantenere alta la tensione e verificare la risposta delle altre componenti interessate a intraprendere la lotta armata”.

Resta alto anche l’allarme per la diffusione di armi provenienti dalla Libia. Gli sviluppi del processo di transizione “restano legati alla capacità rappresentativa e unificante del Cnt, in un’ottica di ricomposizione delle diverse istanze che, qualora disattese, potrebbero innescare spinte fortemente destabilizzanti, anche in considerazione della gran quantità di armi detenute dalla popolazione”. E al di là della valenza aggregante delle motivazioni anti-Gheddafi, segnala l’intelligence, “le dinamiche del fronte insorgente hanno palesato differenze tra le diverse realtà tribali e regionali (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) nonchè tra le componenti laiche ed islamiche”. In questo quadro, sottolinea la Relazione, “il supporto internazionale alle costituende istituzioni libiche, specie in termini di aiuti economici e di cooperazione allo sviluppo, appare ancora rappresentare un fattore imprescindibile per la stabilizzazione del Paese”.

Sempre alto resta il rischio del terrorismo islamico. I servizi segreti sottolineano che le alluvioni in Liguria e in Toscana di fine ottobre sono state commentate “con esultanza” sul web. La minaccia principale resta legata all’iniziativa estemporanea di terroristi solitari ed è “indicativo” che in un appello a colpire facili bersagli “siano stati citati come esempi i due noti episodi occorsi al Sommo Pontefice e all’ex premier Berlusconi”. Nella relazione, però, non si cita quali siano i due “noti episodi” in questione, anche se si ritiene che possa trattarsi del ferimento di Berlusconi in seguito al lancio della statuetta a Milano e allo spintonamento di Benedetto XVI da parte di una donna a San Pietro.

L’Italia, si legge nella Relazione dei Servizi, “continua a essere oggetto di sentimenti ostili da parte di estremisti islamici e perciò resta un potenziale target di progettualità offensive di matrice jihadista”. I “sentimenti ostili”, continua la relazione, sono legati alla partecipazione dell’Italia alle missioni militari in aree di crisi, al suo “ininterrotto impegno contro il terrorismo e, in generale” a “motivi ideologico-religiosi”. “L’incognita più insidiosa – aggiungono i Servizi – resta connessa” alla “imprevedibile iniziativa di terroristi solitari, free lance, suggestionati dai menzionati appelli al jihad individuale”. Al riguardo appare “indicativo che uno dei personaggi di maggiore rilievo della campagna mediatica di Al Qaida, il convertito americano Adam Gadahn, nel sollecitare i musulmani a colpire personalità pubbliche, considerate facili bersagli, abbia citato come esempi i due noti episodi occorsi al Sommo Pontefice e all’ex presidente del Consiglio Berlusconi”. La relazione ricorda comunque che nel 2011 non si sono registrate “minacce dirette contro il nostro Paese” e che l’onda lunga della Primavera araba, per l’Italia “non ha determinato, fino ad oggi, significative ripercussioni sotto il profilo della minaccia terroristica”. Un fattore di minaccia, però, “è legato all’eventuale rafforzamento di formazioni islamiste anti occidentali (alcune delle quali accusano l’Italia di aver agito contro il popolo libico fin dai tempi della colonizzazione) o filo qaidisti. Al riguardo, infatti, si ricorda che il nostro Paese è stato espressamente richiamato in un videomessaggio del 13 settembre nel quale, tra l’altro, il leader di al Qaida Al Zawahiri ha incitato i libici a non dimenticare “l’Italia e i suoi crimini nel vostro Paese, contro i vostri padri”.

Fonte.

Fervono i preparativi per la realizzazione dello Stato di polizia (?)

28/02/2012

La Valle di Susa è bloccata - Alberto Perino



Intervento di Alberto Perino, leader Movimento NO TAV
La Valle sta resistendo come sta resistendo tutto il resto dell’Italia, quello che è successo ieri è una cosa estremamente grave, voglio ricordare a tutti che le cose che sono successe sono state fatte nella più assoluta illegalità com’è stato scritto nel comunicato stampa del legal team dei No Tav e voglio ricordare che le forze di Polizia hanno occupato militarmente un’area sulla quale non avevano nessun diritto di andare perché erano aree private.
Siamo arrivati veramente alla collettivizzazione dei terreni privati, siamo arrivati all’appropriazione indebita di aree private, questo è un fatto estremamente grave e poi dicono che noi siamo i comunisti. La Valle si è fermata, la Valle è bloccata, da ieri mattina l’autostrada, la Statale 25 è bloccata e non passa più nessuna merce né altro, è aperta la Statale 24 per le autovetture, ieri sera siamo andati anche a bloccare l’autostrada a Salbentrand per creare problemi al cambio dei poliziotti, poi alle 2,30 di questa mattina sono arrivati un numero impressionante di Polizia, Carabinieri, sui due lati dell’autostrada, ci hanno presi in mezzo, siccome non eravamo tantissimi, eravamo forse un centinaio di persone, abbiamo alzato i tacchi anche perché la temperatura erano a -2°C e loro sono arrivati subito con gli idranti e con i lacrimogeni e questa è una cosa estremamente pesante, dopodichè dopo circa una mezz’oretta abbiamo tolto il disturbo e ce ne siamo andati, quindi siamo riusciti a fare comunque anche lì una buona manifestazione, era bloccata la Statale 25 a Salbentrand e era bloccata anche ovviamente l’autostrada.
Poi i blocchi sono continuati tutta la notte, questa mattina hanno continuato e verso le 11 sono arrivate due colonne a Chianocco sull’autostrada, una dalla parte alta di Susa, l’altra dalla parte bassa di Torino e ci hanno costretti a ritirarci dall’autostrada, però è stato fatto semplicemente un cambio, sull’autostrada c’erano le forze del disordine e allora per noi è andata anche bene, ci siamo messi lì con le mani alzate seduti per terra, loro hanno ripristinato l’autostrada, dopodichè se ne sono andati e noi siamo tornati a occupare l’autostrada, quindi la situazione è immutata, la Valle di Susa è completamente bloccata! L’Italia sta mobilitandosi, ieri in oltre 60 città ci sono state delle grandi manifestazioni, siamo tutti No Tav, tutta l’Italia è No Tav per dire no a questo Governo, per dire no all’esproprio della democrazia, per dire no ai soprusi polizieschi, forza Luca siamo tutti con te!

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I ‘rosso-bruni’ a Roma, prove tecniche di internazionale nera

Fascisteria da mezza Europa a Roma, contro le “oligarchie finanziarie”, nel nome di Miki Mantakas, militante del Fuan di origine greca, morto nel febbraio del 1975. Accade a Prati, poche centinaia di metri distante dal Vaticano: skinhead, camerati, vecchie glorie nere in odor di Terza Posizione. Tutti uniti al grido di “Riconquistiamo l’Europa”, soldatini schierati, pronti a tutto per “liberare il continente dalle oligarchie finanziarie”. Un tema classico che più classico non si può per l’universo dell’ultradestra: l’incubo di un’Europa politica che scardinerebbe ogni velleità nazionalista, il Leviatano tecnocrate che distrugge i sogni di una rivalsa nera.

In realtà, si tratta di un ritornello vecchio messo su una situazione che si presta molto alla lettura ‘socialista nazionale’: la crisi economica e l’enorme peso specifico della ‘Troika’ stanno seminando il panico in mezza Europa, tra default, deficit, debito pubblico e stipendi bassi. E’ così che la fascisteria europea punta a recuperare consensi, agitando lo spettro delle plutocrazie e delle lobby maligne che vessano i popoli. Di questo si è discusso a Prati, durante la presentazione ufficiale del ‘Movimento Sociale Europeo’ intitolato, appunto, alla memoria di Miki Mantakas. A Roma, sabato, si sono ritrovati i gruppi Corsica Patria Nostra (Corsica), Euro-Rus (Fiandre), Nation (Belgio francofono), Patria Hellas (Grecia) e Troisieme Voie (Francia).

“E’ una realtà molto particolare – si legge sul sito Fascinazione -, quella di Prati, con un gruppo umano coeso e che, al di là delle sigle cangianti, ha mantenuto una sua sostanziale continuità: dalla partecipazione alla scissione della Fiamma tricolore dopo Fiuggi – l’unica sezione romana con Acca Larentia a passare in blocco (e le ragioni mi sembrano evidenti) all’esperienza del Trifoglio, una dei tanti nodi di interconnessione tra destra radicale e area postmissina, una realtà tipicamente romana”. Infatti, tra i presenti alla giornata europea del neofascismo c’era Luca Romagnoli, ultimo custode delle ceneri dell’Msi, con un passato di vicinanza anche al gruppo dei berlusconiani. Una presenza assolutamente non casuale, a rappresentare l’anima d’acciaio di una fiamma che cova ancora sotto la cenere e che non vuole spegnersi malgrado l’emorragia d’iscritti e la progressiva perdita di credibilità dopo la fuga in avanti di Fini e il progressivo spegnimento di Pino Rauti. Il sentiero tracciato conduce a quel ‘rosso-bruno’ che tanto ha fatto discutere anche a sinistra, un socialismo dalla forti tinte nazionaliste, un’ideale cerchio che si apre con Hitler e si chiude con l’oligarchia postsovietica di Putin. Un’idea che fa orrore a Forza Nuova, saldamente ancorata ai principi neofascisti più cattolici e conservatori e, soprattutto, con l’impianto tradizionale del partito politico neofascista: va bene l’internazionale nera, ma senza esagerare. All’appello, come prevedibile, non si è presentata neanche Casapound, sempre più in rotta con l’ultradestra tradizionale. Il movimento di Iannone, infatti, pur cavalcando ancora i temi della destra ‘post Salò’, ha segnato una netta inversione di tendenza nell’approccio comunicativo, preferendo campagne provocatorie e simboli pop alle prolisse esternazioni cui i neofascisti ci hanno abituati. Casapound ha dato un taglio al passato ed è ripartita da zero, scopiazzando anche un po’ dai centri sociali: una strategia di rottura che punta a far riemergere il movimento dalla palude in cui è sprofondato negli ultimi anni a colpi di trovate originali e ‘spinta ideale’ non inquinata dalle opache manovre tipiche dei partiti.

E’ così che l’universo neofascista può essere letto in tre modi diversi: quello giovane e ‘movimentista’ di Casapound, quello partitico di Forza Nuova e quello oscuro dei ‘rosso-bruni’, alla ricerca di rilancio, prima di tutto ideologico, con conseguenze politiche ancora tutte da scoprire. Chi la spunterà? Staremo a vedere, la corsa per le comunali di Roma (con due, o forse più, liste di estrema destra attese ai nastri di partenza, oltre ad Alemanno) segnerà sicuramente il passo. Tra le file dell’estrema desta, settant’anni dopo, il motto è sempre lo stesso: chi si ferma è perduto.

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Verso la merda e oltre

Eravamo un popolo di santi, navigatori e eroi. La Costa Concordia e la Costa Allegra (ma chi sceglie questi nomi?) hanno distrutto la nostra reputazione. Siamo passati da Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci a capitan Schettino. I santi si sono iscritti ai partiti politici e scrivono libri. Gli eroi sono da tempo sottoterra. In Italia per loro non c'è altra sorte. Chi sopravvive non è abbastanza eroe o non dà abbastanza fastidio. Falcone, Borsellino, Ambrosoli e molti altri sono morti e, da allora, entrati nell'Olimpo Italiano, wallpaper buoni per tutti gli usi, trasformati in icone televisive, in mafia e pop corn. Come potremmo definire oggi gli italiani? O meglio come ci definiscono gli altri? Mafiosi, incivili, evasori? In questo Paese tutto è incerto. La giustizia, il lavoro, la religione, l'informazione. L'italiano è in trincea, disprezzato all'estero e braccato nel suo Paese. Non ha più riferimenti se non la propria famiglia, l'unico valore che, se messo a rischio, lo costringerebbe a fare la rivoluzione, che in Italia assomiglierebbe però più a una vendetta che a una rinascita nazionale. Vive tra le macerie, come i ratti e non se ne cura più. Da tempo pensa che il degrado sia normalità, casa, rifugio. Non sa più nulla e crede, o simula di credere, a tutto. L'importante è arrivare a domani. Non è interessato a capire, né a mettere in discussione i dogmi della crescita ad ogni costo, anche della vita, dell'ambiente, del futuro dei figli. L'importante è tirare a campare per non tirare le cuoia. Chi lo disse? Costa Allegra finita alla deriva nell'Oceano Indiano è ora trainata da un peschereccio francese verso le Seychelles. I suoi motori sono fuori uso. I passeggeri hanno dormito sul ponte. Un'istantanea dell'Italia. Questo letargo che dura da decenni e che sembra eterno sta forse per finire? Senza un risveglio delle coscienze e il ritorno della democrazia (quella attuale va chiamata con il suo nome: dittatura), il Paese non ce la farà. Il tracollo economico è un sintomo e un detonatore.

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La scelta di Marchionne

L'intervista al Corriere della Sera di Sergio Marchionne

Si deve sentire molto sicuro Sergio Marchionne se decide di affrontare un'intervista molto diretta e puntigliosa con Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera - intervista di grido, molto ampia, in apertura del giornale - ma soprattutto se decide di calcare il tono arrogante con cui si rivolge, indirettamente, al sindacato, ai lavoratori e alla politica italiana. L'atteggiamento è netto: se Fiat non avrà quello che cerca chiuderà due stabilimenti in Italia e, in ogni caso, la partita per la sopravvivenza si gioca sulla capacità di "esportare negli Stati Uniti". L'intervista è lunga, complessa (quando si sofferma minuziosamente sui bilanci del gruppo, sulle passività e sui programmi di investimento) ma alla fine ne resta nella memoria il messaggio più duro e crudo, la possibile chiusura degli impianti. Non è sicuro ma dipende, come è ovvio, dalla garanzie di competitività che l'Italia e l'Europa, compresa la valutazione dell'euro, sapranno dare. Però l'avvertimento è lanciato e costituirà un macigno all'interno delle vicende del gruppo. E non sembra un caso che l'intervista esca con tale evidenza proprio il giorno dopo la sentenza di Melfi che condanna, ancora una volta, la Fiat per comportamento antisindacale.
Gli stabilimenti che sembrano maggiormente minacciati sono quelli di Mirafiori e Cassino: il primo ormai chiuso quasi stabilmente per cassa integrazione e il secondo privo di un modello affidabile con un mercato di riferimento. Impossibile chiudere Pomigliano e difficile che la scelta cada su Melfi che resta ancora uno degli impianti a più alta produttività della Fiat, forte della politica del "prato verde" che ne ha garantito l'avvio. Quanto alla Sevel di Atessa, si tratta di una società mista con Psa-Citroen e potrebbe essere prevista anche una cessione ma si tratta di una produzione - il Ducato - che è tra le più redditizie.
Il punto è quello che Marchionne spiega al suo interlocutore che invece lo incalza sui limiti tecnologici dei prodotti Fiat: "L'indebolimento dell'euro verso il dollaro aiuta, ma servono costi competitivi". dice Marchionne. "Sa perché gli Usa funzionano con un costo orario del lavoro più alto di quello italiano? Perché si utilizzano in modo pieno e flessibile gli impianti. L'Italia deve tenerne conto".
"Ma bisogna anche avere il prodotto. La Chrysler ha avuto la tecnologia Fiat..." chiede Mucchetti.
"Chrysler è tornata al profitto ristrutturandosi, e cioè con le sue forze". La ristrutturazione, il "bail out" pilotato - pochi sanno che le americane General Motors e Chrysler, all'atto del fallimento, hanno messo le attività inservibili in "bad company", società destinata a socializzare le perdite come nel caso dell'Alitalia - la riduzione del costo del lavoro restano i meccanismi fondamentali per recuperare profitti e presenza sui mercati. Ed è questo il cuore del messaggio di Marchionne.
Che si permette anche di strapazzare Landini e Camusso, definiti troppo "rigidi", "politici" se non ideologici mentre con il loro predecessori, Rinaldini e Epifani, "si poteva dialogare". Un classico del modello padronale per sminuire la controparte.

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Marchionne è tanto bravo a tuonare quanto pessimo a proporre un piano industriale degno di questo nome.
Se FIAT chiuderà due stabilimenti in Italia non sarà certo per mancanza di produttività e valore intrinseco della classe operaia nostrana (chissà poi perché la zavorra sono sempre gli operai e mai gli impiegati...) ma perché è un'azienda bollita, incapace di contrapporsi alla concorrenza e ancora peggio aprirsi o inventarsi nuovi mercati (la mobilità privata in un mondo di 7 miliardi di anime è morta cazzo!!!).

F-35 contro democrazia

Il numero decisivo pare sia il 90. 90 gli F35 che l’Italia potrebbe acquistare. 90 i giorni di preavviso scritto grazie al quale, invece, ci si potrebbe sottrarre al programma e dirottare quei soldi a destinazioni certamente più degne. Penali, no, allo stato attuale non sono previste. Un mensile, Altraeconomia, ha fatto cadere definitivamente la foglia di fico contabile che fungeva da alibi per i supporter del faraonico progetto. Il più grande della storia dell’aeronautica. Primo fra tutti l’ammiraglio-ministro Di Paola, presente a tutte le fasi di avanzamento del progetto e che ha appena confermato l’acquisto di “soli” 90 dei 131 aerei da 120 milioni l’uno. Prezzo destinato a lievitare. Un fissazione bipartizan che, dal primo governo Prodi porta fino a Monti passando per D’Alema e Berlusconi. Ma, come spiega un corposo dossier messo in rete dalla campagna “Taglia le ali alle armi” (www.disarmo.org) dei diecimila posti di lavoro promessi solo 4 anni fa non ce n’è più traccia: restano la prospettiva di 200 posti nel picco della produzione, 800 nell’indotto, un peso di svariate decine di miliardi (10 per l’acquisto e una trentina per gestirli) sul debito pubblico e un nome, Lockheed, che richiama stagioni altrettanto cupe della politica nazionale. Perché la marca degli F35, caccia d’attacco monoposto, supersonici e quasi invisibili ai radar, è la stessa dello scandalo che travolse un presidente della Repubblica e un paio di ministri a metà degli anni ’70. Prima di diventare una delle armi più micidiali mai costruite dall’uomo, F35 è già una storia di micidiali panzane e di un flop industriale senza precedenti.
Tutta acqua al mulino di chi, sabato 25 febbraio, darà vita alle 54 iniziative in altrettante città della giornata di mobilitazione contro gli F35. Una protesta che potrebbe montare sebbene la fase politica sia tra le meno in fermento della storia e il parlamento in carica sia il più belligerante che si ricordi e il governo si appresti a perseverare in un progetto dispendioso all’ombra di una finta riforma delle forze armate. Un gioco di prestigio, secondo la Rete Disarmo, funzionale al famigerato Nuovo modello di difesa. Si tratta solo di un riequilibrio delle voci in bilancio, quello che si risparmierà sulle spese per il personale verrà dilapidato in armamenti a tutto vantaggio dell’apparato militare industriale. Secondo dati della Nato, la spesa militare italiana resterà intorno all’1,4% del Pil e non sotto l’1 come cerca di far credere via XX Settembre. Di Paola procede a tappe forzate evitando come la peste un confronto in Parlamento e senza mai chiarire i numeri forniti palesemente errati anche secondo gli addetti ai lavori. La Rete Disarmo (Sbilanciamoci, Tavola della Pace e ControllArmi) da due anni sta raccogliendo firme, promuovendo mozioni negli enti locali e proverà a interpellare i parlamentari collegio per collegio.
Quello del caccia F-35 è un programma che ad oggi ci è costato già 2,7 miliardi di euro nell’ambito del più grande progetto aeronautico militare della storia, costellato di problemi, sprechi e budget sempre in crescita. Altri paesi partecipanti - tra cui Gran Bretagna, Norvegia, Olanda, Danimarca e gli stessi Stati Uniti capofila! - hanno sollevato dubbi e rivisto la propria partecipazione mentre gli organi indipendenti di monitoraggio come il Gao ne hanno messo in rilievo la lievitazione dei costi fino a produrre un braccio di ferro anche tra Pentagono - che punta al prezzo fisso - e Lockheed Martin disponibile a uno sconto del 20%. Intanto, solo nel mese di ottobre 2011, il Dipartimento della difesa Usa ha chiesto 725 richieste di modifiche tecniche perché il programma farebbe acqua. Un costosissimo colabrodo vittima anche di furti informatici. I partner hanno già scelto o stanno per scegliere di ridimensionare l’impegno e tutti sono impegnati in un braccio di ferro con gli States per strappare i fatidici ritorni industriali dietro cui giustificare la scelta. Ma, come spiega il dossier, l’occupazione è solo un miraggio mentre quei soldi potrebbero - e dovrebbero - servire a uscire dalla crisi rilanciando welfare, redditi e lavoro in sintonia con l’articolo 11 e molti altri della Costituzione. Vale la pena ricordare che, con il costo di uno solo di quegli aggeggi si potrebbe costruire 387 asili nido con 11.610 famiglie beneficiarie e circa 3.500 nuovi posti di lavoro oppure 21 treni per i pendolari con 12.600 posti a sedere oppure 32.250 borse di studio per gli studenti universitari oppure 258 scuole italiane messe in sicurezza (rispetto norme antincendio, antisismiche, idoneità statica) oppure 18.428 ragazzi e ragazze in servizio civile oppure 17.200 lavoratori precari coperti da indennità di disoccupazione oppure 14.742 famiglie con disabili e anziani non autosufficienti aiutate con servizi di assistenza. Riuscire a non far comprare quei caccia potrebbe essere un primo passo.

Tav low cost: perché si fa solo ora?

Il progetto originale della nuova linea Torino- Lione prevedeva 25 miliardi circa di costo totale, caratteristiche di alta velocità con ritorni finanziari trascurabili e mai esplicitati. Ora il progetto è suddiviso per fasi: all'inizio si costruirà la sola galleria di base. Il completamento della linea avverrà in funzione della reale crescita del traffico, quindi probabilmente mai. Scende di conseguenza l'investimento dell'Italia, intorno ai 3 miliardi e mezzo. Ma sulla base dell'analisi costi-benefici è una decisione saggia? E se sì, perché non è stata presa prima?
Il progetto originale della nuova linea Torino-Lione prevedeva 25 miliardi circa di costo totale, caratteristiche di alta velocità, ritorni finanziari trascurabili e comunque mai esplicitati (e quest’ultimo punto la dice lunga sull’attenzione dei promotori per la crisi del bilancio pubblico in cui ci troviamo).

IL PROGETTO PER FASI

Dopo due decenni, ecco il colpo di scena: il progetto è “fasizzato”: all’inizio si costruirà di fatto la sola galleria di base. Il completamento della linea avverrà probabilmente in funzione della reale crescita del traffico, e lo stesso Sole-24Ore, grande sostenitore fino ad ora del progetto originale senza “se” e senza “ma”, prospetta che non si farà mai. Non è difficile crederlo: le previsioni ufficiali di traffico mettono in luce da molti anni che si tratta di un progetto essenzialmente dedicato alle merci, e le parti escluse dal progetto non apportano particolari vantaggi a questo tipo di traffico, almeno sino a quando non raggiunga livelli comparabili alla potenzialità residua della linea esistente.
Vediamo ora qualche caratteristica del nuovo progetto, definito anche “Tav low-cost” da alcune fonti. Si tratta di costruire la sola galleria di base, per ridurre drasticamente le pendenze da superare. Da Chambery a Lione, i francesi costruiranno comunque una tratta alta velocità, ma è un progetto tutto interno a quel paese.
I costi del progetto che interessa l’Italia di fatto sarebbero solo quelli della sezione transfrontaliera della tratta internazionale, che è poi l’unica che l’Europa forse contribuisce a finanziare. Si tratta di circa 8 miliardi (usiamo valori un po’ approssimati, perché si tratta comunque di preventivi). Se l’Europa ne mette due, alla Francia ne toccheranno due e mezzo, e all’Italia 3 e mezzo. Un bel risparmio, rispetto a costi italiani del progetto originale con caratteristiche di alta velocità, che erano dell’ordine degli 11 miliardi (sempre se l’Europa ne avesse messi 2).

UNA SAGGIA DECISIONE?

Ma il drastico ridimensionamento è una cosa buona? No, se la riduzione dei costi fosse inferiore alla riduzione dei benefici (e in questi termini bisogna ragionare per forza, non ci sono alternative se non mistico-ideologiche).
Non pare proprio, però, che la riduzione dei costi sia minore di quella dei benefici. Abbiamo fatto alcuni conti molto semplificati, basati su un modellino sviluppato da chi, da anni, propone invano un’articolazione del progetto per fasi, in funzione della domanda. Lo strumento di calcolo adatto era dunque disponibile e, valutando più di una articolazione per fasi del progetto, ne indicava come più fattibile una assai diversa da quella della “low cost” attuale.
Vediamo cosa significa la tabella dei risultati: per fare un confronto, dai costi del progetto originale (Nltl) sono stati eliminati quelli, tutti francesi e invarianti, della tratta Av Lione-Chambery. I costi detti “fasaggio” sono una stima dei costi economici totali del progetto attuale, inclusivi dell’esercizio e di altre voci specifiche delle analisi benefici-costi, su cui qui non è possibile entrare nei dettagli.
A fronte di una diminuzione di costi (attualizzati) di (14,7 – 9,1) = 4,6 miliardi, si avrebbe una diminuzione di benefici, sempre attualizzati, di (9,1 – 7,3) = 1,8 miliardi; beninteso a fronte di un esercizio ferroviario volto a saturare la potenzialità delle linee di adduzione alla rete nazionale, che già oggi costituiscono i principali “colli di bottiglia del sistema”, senza impegnarla con i previsti servizi navetta per il trasporto degli autocarri, poco efficaci in termini sia di chilometraggi evitati, sia di peso utile trasportato.
Anche se il rapporto fra benefici e costi resta deficitario, ne consegue comunque un beneficio netto per la collettività di (4,6 – 1,8) = 2,8 miliardi. Se poi ci si aggiungesse il costo-opportunità dei fondi pubblici, (“Compf” nella tabella), data l’assoluta irrilevanza dei ricavi netti del progetto, il beneficio per la collettività del passaggio alla versione “low-cost” aumenterebbe ancora, ma anche qui non ci dilunghiamo.
Sembrerebbe un’ottima decisione, dunque. Ma forse i calcoli su cui si basa, certo meno ottimistici di quelli ufficiali, sono sbagliati. E qui sorge il problema maggiore: perché non sono stati presentati i calcoli ufficiali sui quali si fonda la nuova decisione, pure così drastica? Forse risultavano motivazioni ancora più solide. Oppure, al contrario, negative (risparmi inferiori alla perdita di benefici), e solo la scarsità di fondi ha determinato una scelta così importante. Ma non è dato saperlo.
Si noti che in questa fase la quantità di fondi che arriverà dall’Europa è irrilevante: si parla dell’utilità socioeconomica netta del progetto. I fondi europei per l’Italia infatti sono sostanzialmente una “invariante”: quelli che eventualmente andranno a questo progetto saranno sottratti ad altri, all’interno degli equilibri politici complessivi dell’erogazione delle risorse per infrastrutture ai diversi paesi. Peraltro, da notizie recenti sembra che i fondi europei per il progetto siano di ammontare tutt’altro che certo.
Ma immaginiamo che il ridimensionamento sia stata una decisione saggia. Emerge una questione molto rilevante: perché non è stata presa prima, avvalendosi di analisi comparative tra soluzioni diverse, come sempre auspicato da lavoce.info, dalle migliori pratiche internazionali e da studiosi indipendenti? Quale idea sull’uso dei fondi pubblici stava alla base del faraonico progetto originario? Quali interessi si intendeva far prevalere rispetto a quelli della collettività (non è difficile certo immaginarlo, senza dietrologie particolari)?
Ora, la necessità di un riesame urgente di tutte le altre grandi opere, concepite con logica identica, sembra davvero improcrastinabile: quali sarebbero i costi e i benefici, anche ambientali, di un ponte di Messina senza la ferrovia, che ne raddoppia i costi per pochi treni al giorno? E per un terzo valico Milano-Genova progettato non in funzione dei (pochi) passeggeri, ma solo delle merci, cioè con standard e costi molto inferiori? Lo stesso vale per la linea Av Napoli-Bari, e per molte altre grandi opere, concepite evidentemente senza alcuna considerazione della scarsità delle risorse pubbliche.

Fonte.

La ferocia con cui il progetto della TAV continua ad essere imposto all'Italia ha dell'incredibile, non oso (e non riesco) a immaginare quale intricata e trasversale rete d'interessi innominabili ci debba essere dietro, roba da declassare le mangerie della prima repubblica al rango di rabbinate.

Economia del sottosviluppo - Nino Galloni

Atene non è al sicuro. Ed è vero che l’Italia non è la Grecia?

Angela Merkel lo ha detto senza nascondersi dietro il suo ruolo di Cancelliere della Repubblica federale: “Il fallimento della Grecia comporterebbe un rischio incalcolabile” e anche il secondo pacchetto di aiuti da 130 miliardi – approvato nel tardo pomeriggio dal Bundestag – “non assicura al 100 per cento” di centrare il salvataggio del paese sull’orlo del default.
Loretta Napoleoni, economista e giornalista, ci ragguaglia sugli ultimi sviluppi con uno sguardo al passato e uno al futuro.

Tutti contenti per i 130 miliardi messi a disposizione di Atene. Siamo al sicuro? Basterà alla Grecia per risvegliarsi dall’incubo che sta vivendo?

Il pacchetto non basta. La Grecia nel 2013 avrà sicuramente bisogno di altri aiuti e questo perché la politica di austerità che le è stata imposta riduce il tasso di crescita. Secondo alcune stime questa nuova ondata di riforme di austerità dovrebbero far contrarre il Pil greco di un altro 5 per cento. Ciò significa che l’anno prossimo Atene avrà un rapporto debito-Pil superiore a quello di oggi. Un paese per poter pagare il debito deve poter crescere a un tasso superiore a quello degli interessi del debito stesso. Non c’è ragione di essere ottimisti, anzi bisognerebbe essere molto pessimisti.

Non solo in Grecia, ma in tutta l’area euro l’economia rallenta (per non dire che è ferma). E ciò nonostante il mare di liquidità immesso dalla Bce e che ancora immetterà mercoledì 1 marzo. Cosa sta succedendo?

La politica della Bce, il Ltro (Long term refinancing operation), in realtà immette liquidità nel sistema bancario ma non nell’economia. Ciò vuol dire che questi soldi che vengono stampati non filtrano attraverso le banche nell’economia. Le banche stanno ricostituendo i propri bilanci, si stanno proteggendo dalle nuove normative di Basilea-3 che richiedono una più alta percentuale di depositi. Sembra quasi che queste iniziative siano dirette a proteggere le banche e non gli stati. Questo è quanto vogliono anche Merkel e Sarkozy. Se si isolano le banche dal rischio Grecia, l’anno prossimo quando Atene chiederà ancora aiuti le si potrà dire “Basta così” e lasciarla al proprio destino (in bancarotta) senza avere alcun impatto sul sistema bancario dell’Europa centrale.

In effetti Moody’s aveva criticato il coinvolgimento dei privati e il fatto che le banche dovessero rinunciare a una parte consistente dei propri crediti. La conseguenza sarebbe stata una fuga degli investitori dai paesi a rischio (Italia, Portogallo, Spagna, Iralnda). C’è ancora questo pericolo?

Moody’s ha declassato ancora il rating della Grecia: manca un solo gradino alla D di defautl. Moody’s non si fida e neanche il mercato ha dato una risposta positiva. C’è un po’ di stanchezza. Tutti i summit e gli incontri producono risultati scarsi: l’impressione è che si voglia guadagnare solo tempo, e appare sempre più chiaro che non c’è una strategia a lungo termine. L’obiettivo è quello di ridurre l’esposizione delle banche nelle regioni periferiche. A quel punto, quando le banche saranno salve, se l’anno prossimo permarrà questa situazione – o addirittura peggiorerà – l’Europa centrale lascerà al proprio destino i paesi deficitari.

Si ripete continuamente il mantra: “L’Italia non è la Grecia”. Sicuramente non lo è dal punto di vista del debito e del potenziale produttivo, ma lei scrive nel suo libro Il Contagio (edito da Rizzoli) che anche l’Italia ha fatto ricorso a qualche artifizio finanziario e a un “falso in bilancio” per entrare nel club dell’euro. Proprio come la Grecia.

Certamente, il debito è molto più alto di quanto dichiarato e di conseguenza anche il rapporto Pil debito no corrisponde al vero. In realtà nessuno può sapere a quanto ammonta il debito se non i ministri del Tesoro che si sono succeduti negli ultimi anni.

Come è possibile che nessuno in parlamento si premuri di proporre un’interrogazione? Perché ci si preoccupa di conoscere il reddito del ministro Severino e non l’entità del debito, le notazioni nello swap book e l’ammontare dei currency swap?

Non lo fanno perché non vogliono farlo: è una situazione in cui se lo fanno ammettono di aver sbagliato. E’ tutto l’arco parlamentare coinvolto in questa storia. Siamo entrati nell’euro con Prodi e il Pd e queste attività sono state poi perseguite anche da Berlusconi. Proporre adesso un’interrogazione vuol dire proporla contro loro stessi.

Fonte.

Berlusconi incassa il salvacondotto in cambio della resa sul South Stream

Un commento volante alla sentenza Mills, in cui Berlusconi è stato prescritto nonostante il parere contrario della pubblica accusa: www.repubblica.it

Forse tale sentenza va letta alla luce dell’annuncio, l’8 settembre scorso (data fatidica), del salvacondotto giudiziario per il cavaliere annunciato da Buttiglione: qn.quotidiano.net

Come forse va letto alla medesima luce l’ammonimento del CSM contro Ingroia (e contro tutti quei PM come Ingroia riottosi - "Sono un partigiano della Costituzione", aveva dichiarato a suo tempo il PM palermitano - rispetto ai nuovi equilibri): www.snadir.it

E, guarda caso, l’annuncio di Buttiglione coincide perfettamente, in termini temporali, con la resa di Berlusca sul gasdotto South Stream, con il ridimensionamento dell’Eni a vantaggio di francesi e tedeschi, conformemente ai desiderata atlantici: www.soldi-web.com

Tout se tient, madama la marchesa…

Fonte.

27/02/2012

Daysleeper

La ruota del criceto - Simone Perotti



Il messaggio è devastante.

Lavoro: un progetto per un milione di giovani


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Vorrei scrivere un post dal titolo "Superare Keynes, superare Marx" ma non ne sono capace. Tuttologa va bene, ma senza esagerare.
Mi limito a segnalarvi un progetto che mi piace moltissimo, che vi invito a leggere ed eventualmente a firmare. Lo propone l'economista Gustavo Piga, docente di Economia Politica a Roma Tor Vergata. Mi piace molto Piga, è un coraggioso senza peli sulla lingua e ha un gran bel blog. Ha studiato anche lui negli States -sembra non ci sia scampo- ma almeno si è tenuto alla larga da Chicago.
Il suo Appello per un Nuovo Rinascimento, che ha intenzione di presentare al presidente della Repubblica, così recita:
Chiediamo al Governo che destini l'1% del Prodotto Interno Lordo di ogni anno finanziario del prossimo triennio, 16 miliardi di euro, senza addizionali manovre fiscali, ad un Piano per il Rinascimento delle Infrastrutture Italiane che veda occupati ogni anno 1.000.000 di giovani ad uno stipendio di 1000 euro mensili, con contratto non rinnovabile di 2 anni, al servizio del nostro Patrimonio artistico, ambientale, culturale e a quelle iniziative della Pubblica Amministrazione.
E' un po' quello che tanti di noi vanno chiedendo da anni: anziché buttar soldi per opere inutili, megalomani e dannose, anziché sprecare denaro del contribuente in mille rivoli che finiscono ad ingrassare le solite tasche, forse sarebbe ora di metter mano all'esistente. A quello che hanno costruito -bene- i nostri padri e i nostri nonni e rimetterlo in sesto (scuole, ospedali, acquedotti); ai nostri disastrati beni culturali, museali ed archeologici; al nostro territorio e ambiente massacrato e tutto da bonificare. Il bello di questa proposta è che non offrirebbe i soliti posti di lavoro di infimo livello, asfaltisti e cementisti, ma darebbe opportunità a migliaia di specialisti, dagli archeologi agli storici dell'arte (che in Italia servono disperatamente, altroché) agli ingegneri, ai geologi, oltre che a tanti periti e diplomati.
Cosa c'entra Keynes? C'entra: perché Gustavo Piga è, naturalmente, keynesiano. E sembra che questa sia la teoria economica più azzardatamente all'avanguardia che abbiamo a disposizione, in questi tempi bui di dittatura della finanza. Ha circa cento anni, quasi quanti il marxismo. Forse il mondo è un filino cambiato, che ne dite? E' cambiato di brutto almeno due volte, in questi cento anni, e il secondo cambiamento lo stiamo vivendo adesso.
Perciò, dopo aver firmato l'appello, invito sia voi che Gustavo Piga a leggere questo articolo di Guido Viale, dal Manifesto.
Non ha più molto senso ragionare su meri aggregati economici espressi in termini monetari, senza tener conto che nessuna politica economica è più praticabile senza una contestuale politica industriale che orienti e condizioni l'oggetto delle produzioni e le modalità del consumo di molti beni e servizi. Questo, a mio avviso, è un limite inemendabile delle analisi e delle proposte correnti di stampo keynesiano.
E' la "crescita" che va messa in discussione, amici keynesiani e marxisti, la crescita e la pressione insostenibile sull'ambiente. Rassegnatevi: entrambe vanno pesantemente ridiscusse. Ma consolatevi: è l'occasione buona per sviluppare una nuova grande teoria economica. Il mondo la attende da cento anni.

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Homs nell’inferno dei gruppi armati

Le immagini che ci arrivano da Homs sono inquietanti: mostrano una città deserta, devastata dai combattimenti. Dallo scorso 6 febbraio, non avendo potuto ristabilire le comunicazioni, abbiamo perso ogni contatto coi nostri corrispondenti (*).

Homs, ormai, non è altro che un sinistro campo di battaglia dove i soldati governativi affrontano gruppi armati che, secondo testimonianze indipendenti sulla vera natura della ribellione, sparano cannonate alla cieca per seminare terrore e morte, facendo poi credere essere unicamente le forze del governo a martellare la città.
I media occidentali continuano, da parte loro, a menzionare come prova le dichiarazioni dei Comitati locali che diffondono la propaganda degli «oppositori» armati, in coordinamento con l'Osservatorio siriano dei Diritti dell'Uomo, con base a Londra, un organo creato e finanziato dalle forze alleate con la ribellione [1].
Per capire quanto succede in Siria, non è dunque possibile fare affidamento sull'Osservatorio siriano o sui blogger che sono parte integrante di questa ribellione; tantomeno sugli inviati speciali che constatiamo essere sistematicamente anima e corpo dalla parte degli «oppositori» armati, che loro qualificano come «eroi», e che presentano la battaglia che divide il popolo siriano in una luce del tutto manichea: da una parte l'opposizione che «lotta per la democrazia», dall'altra il terribile dittatore.
Ora, le cose non stanno così. Come è stato da ultimo dimostrato da un recente sondaggio nonché dalle massicce manifestazioni di sostegno al veto russo e cinese all'Onu, la grande maggioranza del popolo siriano non vuole questa rivolta armata che cerca unicamente di legittimare le potenze della Nato e taluni Stati arabi - notoriamente grandi paladini della democrazia - come il Qatar.
Se si deve parlare di «eroi» in Siria, allora si deve fare riferimento a tutte le parti che soffrono, e non solamente agli «eroi» che riconosce l'Occidente...

Quanti missili Milan sono stati consegnati ai ribelli?
Sono numerosissimi i cittadini siriani che si appellano al loro presidente affinché le forze governative intervengano. A Homs soprattutto, dove la situazione è allarmante per ampi settori della popolazione, presi in ostaggio da questi gruppi che occupano intere zone della città - i quartieri di Baba Amr, Khaldiyeh, Karm el-Zeytoun - dove le persone chiamano da mesi Damasco affinché li soccorra [2].
La loro sorte è diventata ancor più fonte d'angoscia da quando i ribelli fanno uso dei lancia-missili anticarro Milan che erano stati consegnati ai ribelli libici durante la campagna di Libia, meno di un anno fa, da Francia e Qatar. Ci possiamo ricordare come Bernard Henry Levy e Sarkozy avessero all'epoca ingannato l'opinione pubblica attribuendo alle forze fedeli a Gheddafi l'uso di questi missili Milan che mietevano vittime in Libia.
È lo stesso inquietante scenario che si ripete in Siria. I politici, le ONG e i giornalisti, fanno ancora una volta una scelta di campo a favore della guerra che gruppi strumentalizzati dalle potenze straniere provocano. Attribuiscono alle forze governative - come in passato in Libia, senza alcuna seria verifica - gli atti di barbarie perpetrati dagli «oppositori» armati che terrorizzano la maggioranza della popolazione.
Da tre settimane i commentatori ripetono che Homs è cannoneggiata unilateralmente dall'esercito siriano. Al contrario, i contingenti lealisti attaccati dai missili Milan hanno subito numerose perdite dall'inizio del loro intervento. Non è chiaro se le autorità di Damasco riusciranno a sloggiare questi gruppi dotati di armamento pesante da tutti i quartieri della città in cui si sono infiltrati.

Poteva il governo siriano non reagire?
È stato ripetutamente dimostrato - fin dall'inizio di questi combattimenti - che gli «oppositori» armati sono addestrati, inquadrati e formati da forze speciali straniere; che tra le loro fila gli oppositori hanno elementi che agiscono per conto di potenze straniere la cui presenza in Siria è lampante. La televisione siriana ha diffuso negli scorsi giorni le immagini recenti di Homs riprese da un «fotoreporter di guerra» straniero che ha seguito e filmato in un quartiere della città questi «oppositori» armati - gli stessi che i «grandi reporter» glorificano - che lanciano razzi e missili all'impazzata. Una immagine ha attirato l'attenzione: all'interno di un edificio, con le scale imbrattate di sangue, gli arredamenti distrutti, campeggiava su un muro una scritta sorprendente e dal significato pesante: «Da Misurata, dopo aver liberato la Libia, siamo venuti a liberare la Siria!».

Chi sono i responsabili dei massacri di Homs, che obiettivi perseguono?
Questi gruppi armati, le cui azioni più efferate sono attribuite ai soldati di el-Assad che li fronteggiano, sono sistematicamente presentati dalla stampa occidentale come «oppositori» che lottano per la «democrazia».
Perché i «grandi reporter» non riportano mai le testimonianze su Siriani vittime di rapimenti, torture, omicidi, da parte di questi «oppositori» armati? Perché, ancora di recente, il presidente di "Medici senza frontiere" si è aggiunto a questa operazione di intossicazione mostrando come degne di fede le testimonianze di Siriani anonimi - col volto celato - schierati coi ribelli che attribuivano alle forze di el-Assad ed ai medici degli ospedali atti indicibili di tortura su feriti e bambini? [3]
Chi potrebbe credere essere nell'interesse di Bashar el-Assad di torturare il suo popolo, violentare bambini e ragazzine? Chi può credere che il popolo siriano continui a sostenere in maggioranza Bashar el-Assad se fosse quel torturatore sanguinario dipinto in Occidente a fini di propaganda di guerra?
Queste incessanti campagne che prendono la difesa degli oppositori violenti, e non del popolo terrorizzato e oppresso da questi ribelli, sono pericolose. Mirano a portare acqua al mulino delle potenze - Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, appoggiate da Qatar e Arabia Saudita - che, da mesi, preparano nell'ombra il terreno per un intervento militare in Siria e non aspettano altro che il semaforo verde da parte di Obama.

(*) Si veda: « Homs, un testimone racconta il terrore: sono gruppi armati, non è Damasco », di Silvia Cattori, 10 febbraio 2012. (http://www.silviacattori.net/article2800.html )

[1] L'Osservatorio siriano dei Diritti dell'Uomo - che raccoglie le dichiarazione manipolate dalla Siria di diversi Comitati - è stato più volte denunciato come niente altro che un volgare strumento di disinformazione al servizio della rivolta. Malgrado le numerose prove che lo attestano, rimane sulla Siria la principale fonte - insieme ai famosi «grandi reporter» - su cui si poggia tutta la stampa occidentale che giorno dopo giorno propaga quanto riferito da questo osservatorio bidone.
[2] Si veda: «Una Siriana che ha avuto il fratello ucciso a Homs dagli «oppositori», testimonia», racconto raccolto da Nadia Khost, 8 febbraio 2012. (http://www.silviacattori.net/article2790.html )
[3] Torneremo sul ruolo delle ONG che hanno contribuito ad alimentare la disinformazione che colpisce la Siria aumentando così il rischio di un intervento straniero; in particolare Amnesty international et Médecins sans frontières.

Poveri noi, come ci hanno ridotti

Per capire come ci hanno fregati basta chiudere gli occhi e ripensare a quando eravate piccoli. In famiglia, quasi sempre lavorava solo papà, nel senso che era l’unico a percepire un reddito. Mamma si sbatteva tanto quanto, forse anche di più: faceva funzionare la famiglia. In un certo senso produceva reddito eccome: quello che non si era costretti a spendere in baby sitter e colf, oltre all’inestimabile valore di essere un punto di riferimento affettivo e organizzativo costante. I bambini andavano a scuola, erano vestiti bene e avevano i libri per studiare e i giocattoli a Natale e per il loro compleanno. Una o due volte l’anno ci scappava anche una vacanzina tutti insieme. C’era una sola automobile e prenderla per fare una gitarella o per andare a trovare un parente non comportava una lunga pianificazione di bilancio.

Oggi ci siamo evoluti. In famiglia lavorano sia mamma che papà, perlomeno qui a Milano. La matematica dice che dovremmo essere più benestanti. E’ vero il contrario: viviamo peggio di quando lavorava solo papà. Con due stipendi spesso non ce la si fa a tirare a fine mese. Trovare i soldi per le rate condominiali, per il mutuo, fare la spesa, saldare le bollette, pagare le tasse e qualche multa è diventata un’impresa in cui si raccapezzano solo i più avveduti o i più fortunati. Bisogna essere laureati alla Bocconi anche solo per raggiungere il pareggio di bilancio familiare. Le vacanze, per una famiglia con figli, sono sempre più spesso un miraggio lontano o un privilegio di chi ha ereditato dai genitori una casa al mare o in montagna, sempre che riesca a star dietro alle spese per mantenerla. Prima di prendere la macchina e fare un giro in montagna bisogna fare bene i conti, perché la benzina costa quasi 2 euro al litro.

Ma la cosa peggiore è che, non avendo più una figura di riferimento in casa, o ci si rassegna a vivere in una discarica sporca e disordinata, oppure bisogna tirare fuori altri soldi per pagare qualcuno che, almeno due ore alla settimana, venga a dare una rassettata al letto e a lavare i piatti incrostati. E se non si ha la fortuna di avere nonni ancora in forze, vicini a casa e disponibili, ci vuole un surrogato di mamma che vada a prendere i bambini piccoli a scuola o che badi agli infanti. Senza contare gli anziani che vengono abbandonati a loro stessi o scaricati in case di cura che dovrebbero essere chiamate case di tortura. Con aggravio di costi che si mangia via lo stipendio aggiuntivo, già magro di suo. E soprattutto, i figli crescono senza genitori, i genitori invecchiano senza figli e la famiglia si disgrega. Il che rende le persone più individualiste, più sole e, in definitiva, più simili a degli automi, perfetti ingranaggi per il mercato lavorativo.

Eppure nella maggior parte dei paesi civilizzati, insieme al lavoro vengono offerti servizi. Le mamme possono portare con sé i loro piccoli, perché le aziende mettono a disposizione un nido di infanzia direttamente nel luogo di lavoro. Le pause caffè si passano con il proprio bimbo in braccio, oppure all’ultimo piano, dove l’azienda allestisce una palestra ben attrezzata. Sei stressato? Stacchi venti minuti e vai a farti un po’ di addominali. Risultato: meno soldi in inutili rette e abbonamenti costosi e meno tempo sprecato nel traffico. A Parigi, se per andare a lavorare devi prendere il treno, puoi lasciare il tuo bambino nell’asilo della stazione. Noi abbiamo voluto fare i grandi, ma conservando la stessa mentalità provinciale che vede la donna come un peso per il datore di lavoro, terrorizzato dalla maternità che non riesce a vedere come una risorsa aggiuntiva.

L’Eurostat ha certificato che abbiamo gli stipendi più bassi d’Europa, fatta eccezione per il Portogallo, la Slovenia, Malta e la Slovacchia. Perfino in Irlanda guadagnano quasi il doppio di noi. In Danimarca guadagnano invece tre volte tanto, hanno un governo la cui età media è di 20 anni inferiore alla nostra (il Ministro delle Finanze ha 26 anni), ovvero il più giovane d’Europa contro il nostro che, viceversa, è il più vecchio  Oggi se ne lamenta anche Della Loggia sul Corriere, curioso che a dirlo debba essere un settantenne. L’età non è un problema di per sé, sia chiaro, anzi può essere un valore. Ma solo se è bilanciata dal contrappeso carico di passione, slancio e innovazione tipico della gioventù. Altrimenti diventa espressione di una società gerontocratica, dove i vecchi monopolizzano e paralizzano una società intera. Non è un caso se anche i dirigenti pubblici più giovani, in Italia, abbiano oltre 50 anni. Steve Jobs, Larry Page, Bill Gates e Mark Zuckerberg hanno stravolto il mondo da giovanissimi e senza una lira. Manganelli, il capo della Polizia, guadagna oltre 600 mila euro all’anno. Tanto per capirci, il capo dell’FBI ne prende 120 mila, ma in dollari: cioè 89 mila euro.

La media degli stipendi italiani, invece, è di 23.406 €. Lordi. Perfino la Grecia, prima delle misure di austerity imposte dalla troika, ci batteva di diverse lunghezze. Forse si stava meglio quando si stava peggio. E la cosa buffa è che a questo stato di cose ci ha condotto quella classe dirigente a libro paga della Goldman Sachs, delle Agenzie di Rating, dei templi della finanza e della speculazione che adesso ci impone la sua ricetta per farci uscire dalla crisi. Dov’erano, questi ultra-ottuagenari, quando noi ci stavamo impoverendo e loro si arricchivano? Perché non ci hanno pensato prima? Perché dovremmo credergli, adesso?

Ieri, Aldo Grasso sul Corriere ha descritto Elsa Fornero come “una maestrina dalla penna rossa uscita da un libro di De Amicis”, in un articolo che ne fa un’apologia del virtuosismo melenso dal sapore quasi ascetico. Non ho mai visto una maestrina vice-presidente di fondazioni bancarie o del Consiglio di Sorveglianza di Intesa Sanpaolo.
Non so bene da quale libro sia uscita la Fornero, ma ho una certa idea di quale sia invece quello da cui è uscito Aldo Grasso.

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No TAV, la finta democrazia

Si riaccende la tensione in Val di Susa. Una ruspa è in azione per abbattere la baita costruita dai manifestanti, e un giovane è in gravissime condizioni dopo esser caduto da un traliccio. Intanto, sembra che stiano iniziando i primi espropri di case e terreni per allargare il cantiere...

"Ancora una volta constato gli atti di sopruso che le istituzioni stanno portando avanti verso questa comunità.
Una comunità che ormai ha una portata nazionale dopo la grande manifestazione di sabato scorso, cui hanno partecipato decine di migliaia di persone provenienti da tutta Italia, per chiedere ancora una volta la valutazione oggettiva della necessità di quest' opera.
Quando si assiste ad atti di violenza vera e propria da parte delle istituzioni nell'imporre un progetto che è completamente torbido nelle sue finalità, ci si sente completamente frustrati come cittadini. Non ha alcun senso portare avanti questa finta democrazia, in cui si dice alla gente: 'protestate pure, ma poi andiamo avanti per la nostra strada, noi facciamo quello che vogliamo'. Il motivo di questa protesta, che dura da 21 anni, è che si vuole essere ascoltati, così come per qualsiasi altra protesta ci sia in uno Stato di diritto.
Si ferma il cantiere, si ascoltano le richieste della popolazione e della vastissima comunità di studiosi che chiedono con forza un riesame oggettivo della necessità dell'opera: solo dopo che si è aperto questo confronto si decide se andare avanti oppure, se sono realistiche le istanze portate avanti dalla popolazione locale, allora si interrompe l'opera. Non si può proseguire così, ignorando completamente le richieste delle persone, che sono riassumibili in una sola domanda: 'L'opera serve o non serve?'Noi abbiamo dati che dicono che non serve, che è soltanto una devastazione territoriale, una perdita ingentissima di denaro pubblico. Allora, valutiamo questi numeri, non si può fare sempre il muro di gomma e ogni volta che si fanno le manifestazioni spostare l'attenzione sul problema sull'ordine pubblico, sull'attacco diretto cui purtroppo si arriva in qualche situazione a causa della tensione insostenibile.
Ancora ieri sera io, a "Che tempo che fa", nell'esprimere solidarietà al Procuratore Caselli, riconoscendo come giusti i provvedimenti decisi per persone che hanno manifestato atti violenti, dall'altra parte ho chiesto al Procuratore di farsi promotore di un confronto serio su questi dati. Se un Procuratore ha il dovere di fare rispettare la giustizia, ha anche il dovere, secondo me, di prevenire gli atti di violenza e la prevenzione, come bene sa chiunque, si fa prima con la discussione.
Allora, fermiamo questo cantiere assurdo, parliamone, se i dati discussi dicono che l'opera non serve, si mette il progetto in un cassetto e si pone fine a questa farsa. Se invece si accerta che la popolazione locale e gli studiosi dicono fandonie e hanno sbagliato i calcoli, se mi si dimostra che l'opera serve veramente, benissimo, l'ho già detto molte volte, vado a inaugurarla di persona!"

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Europa oggi: 160 finanzieri tedeschi per riscuotere le tasse in Grecia

Quello che sta accadendo in Grecia è esemplare per spiegare a cosa serva effettivamente l'Unione Europea per come è oggi.
Ovvero a ratificare su base continentale la perdita di sovranità di un paese rispetto ad un altro. In questo senso il rapporto tra Germania e Grecia è paradigmatico. Il paese ellenico è diventato una colonia finanziaria di Berlino in modo così stretto da perdere autonomia economica per non parlare di quella politica. Berlino infatti, dopo aver impedito di fatto la realizzazione di un referendum in Grecia sulle misure economiche in autunno, ha già suggerito ad Atene di rinviare le elezioni che si dovrebbero tenere ad aprile. L'autore di questo genere di richieste è sempre lo stesso: il ministro delle finanze Schauble che si distingue oltretutto per chiedere alla Grecia tagli più aspri alla spesa sociale per salvaguardare gli interessi delle banche tedesche. Nel contesto dei rapporti tra Grecia e Germania c'è poi quest'ultima notizia. Sono pronti 160 finanzieri tedeschi da spedire in Grecia per riscuotere le tasse nel paese ellenico. Uno di questi finanzieri ha anche candidamente detto a Der Spiegel che la situazione gli ricorda l'unificazione della DDR quando dalla capitale della RFT, allora Bonn, si spedivano funzionari per meglio preparare amministrativamente l'unificazione con la Germania Est. Solo che stavolta l'unificazione, specie in questi termini coloniali, non l'ha chiesta proprio nessuno.
Non si era mai visto nella storia dell'Europa moderna che un paese sovrano spedisse i propri finanzieri per riscuotere le tasse in un altro paese. Tasse che serviranno a pagare gli interessi tedeschi, ma anche francesi, sul debito. Mica per rilanciare l'economia del paese ellenico.
E non si pensi che all'interno della Germania, rispetto alla Grecia, ci sia tutta questa differenza di vedute. Recentemente quando alla Fdp, il partito dei falchi liberisti di Schauble, sembravano mancare i numeri in parlamento sulla politica dura nei confronti della Grecia sono arrivati in soccorso i voti dei socialdemocratici e dei verdi. Questi ultimi, per bocca del loro portavoce, sostengono che il debito i greci lo devono pagare eccome. Sembra quindi emergere con nettezza un problema grande come l'Europa che si chiama Germania. Va affrontato senza il veleno del nazionalismo nella consapevolezza che in Europa le politiche oggi si fanno a vantaggio di un piccolo nucleo di paesi con in testa Berlino.
Nel frattempo si sta per essere eletto il nuovo presidente tedesco. Che si è fatto notare per aver firmato un appello ad equiparare, culturalmente e politicamente, comunismo e nazismo. Un appello firmato anche da organizzazioni di estrema destra dell'est, tanto per capire che oltre ad essere anticomunista questa carta di intenti non si mostra nemmeno equidistante tra le parti.
Così è l'Europa oggi mentre la crisi finanziaria ed economica continua.

Le fonti:

Der Spiegel

http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,817498,00.html

Frankfuter Allgemeine

http://www.faz.net/aktuell/wirtschaft/verschuldetes-griechenland-deutsche-finanzbeamte-wollen-griechische-steuern-eintreiben-11662073.html

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"Il fascismo è tornato di moda"

2013: un anno vissuto pericolosamente

Tra un anno si terranno le elezioni politiche. Tra un anno saremo più o meno nelle condizioni odierne della Grecia. Nel 2012 il PIL sarà negativo dell'1,3%, secondo le previsioni più ottimistiche, il che equivale a circa un milione e duecentomila posti di lavoro in meno. Peggio di noi faranno solo Grecia e Portogallo, nazioni sostanzialmente fallite. Il credito alle imprese è scomparso. Si ritirano i fidi già concessi, non si erogano più prestiti. Le banche reggono grazie ai prestiti della BCE, soldi peraltro degli Stati, quindi nostri, dei cittadini. Soldi sottratti allo sviluppo per comprare titoli pubblici e obbligazioni bancarie. Il Paese è allo stremo e si cerca di risollevarlo con gli accertamenti degli scontrini nei negozi, che chiudono sempre più spesso, e con le spaventose sanzioni di Equitalia a comuni cittadini. Una barzelletta.
I disordini sociali sono alle porte e i partiti si stanno preparando. Nella primavera del 2013 può succedere di tutto. Le elezioni sono uno spartiacque. Ci sono varie ipotesi di lavoro per impedire un cambiamento radicale e la scomparsa degli attuali partiti. Lo sbarramento alla Camera all’8% e al Senato al 12%. Un premio raddoppiato di coalizione (se non ti allei e superi lo sbarramento ti ritrovi comunque con un pugno di parlamentari). La nascita di un Partito Unico (il “Partito della Nazione”?) con Pdl, Pdmenoelle e Udc nello stesso cartello. Più o meno quello che avviene adesso con il voto unificato a Rigor Montis di Berlusconi, Bersani e Casini. Una sostanziale ufficializzazione di uno stato di fatto per un’altra legislatura con il mantenimento di un miliardo di finanziamenti pubblici e la bocciatura di qualunque risultato referendario e di leggi popolari. Come prima, più di prima.
Saranno elezioni incandescenti. Non escludo la possibilità di uno slittamento se la situazione sfuggisse di controllo. La stagione delle bombe potrebbe tornare. Loro non si arrenderanno mai (noi neppure). Ci vediamo (in ogni caso) in Parlamento.

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Belìn ci manca solo il revival degli anni di piombo...

Ravenna, diossina nel latte materno. Asl, risposta choc: “Normale in questa zona”

A Ravenna è allarme diossina. I valori del cancerogeno agente tossico nel sangue di due donne incinta e di alcuni polli ruspanti viaggiano ampiamente oltre la norma. Impossibile non stupirsi di fronte ai dati che il Movimento 5 Stelle, Legambiente, Associazione Naturista, Articolo 32 e Ravenna Viva hanno portato alla luce già nel dicembre 2011. Ma è ancor più difficile non rimanere sorpresi di fronte alle parole del direttore dell’Asl di Ravenna, alla richiesta di una commissione regionale di monitoraggio dell’aria: “La presenza di diossine negli organismi umani è una conseguenza inevitabile per chiunque vive in aree industrializzate”.

La vicenda nasce circa un anno fa, ancora prima delle elezioni amministrative, quando il futuro consigliere M5S, Pietro Vandini, rende pubblici alcuni test svolti su due volontarie a Savarna e Porto Corsini. Due donne che hanno alcuni requisiti specifici come risiedere in quelle zone da almeno cinque anni, mangiare cibo proveniente da filiera corta e non fumatrici. I risultati sono critici e non vengono usati in modo “strumentale” perché vanno approfonditi, proprio come spiega al fattoquotidiano.it Vandini: “I livelli di diossina erano fino a quattro volte oltre il limite consentito per il latte vaccino. Poi io una volta eletto e divenuto presidente di una commissione consiliare ad hoc ho fatto richiesta ad Arpa Emilia Romagna ed Asl di Ravenna per iniziare entro i primi di marzo 2012 una campagna di indagine seria, completa e articolata sul tema come avviene negli altri stati dell’Unione Europea”.

Passaggio non obbligato che però ha perfino spinto il sindaco Matteucci a richiedere formalmente di inserire Ravenna in un progetto regionale sulla qualità dell’aria e nel monitoraggio dei contaminanti. Ma al danno si aggiunge la beffa perché il direttore dell’Asl ravennate, Paolo Ghinassi, dichiara ai giornali: “Nelle aree industrializzate è così. Non servono accertamenti”, e aggiunge, “Però se ci sarà la disponibilità di Hera e Arpa anche l’Ausl sarà disponibile per sedersi a un tavolo che partendo dalle conoscenze a disposizione elabori un monitoraggio alla ricerca di nuovi inquinanti, prodotti dalla produzione industriale, che potrebbero avere conseguenze sulla salute dell’uomo.

“Questa affermazione ci fa ribrezzo”, dice il consigliere regionale M5S Giovanni Favia, “E ricorda tanto quella in cui si diceva che con la Mafia dobbiamo convivere. Nel latte materno sono stati rilevati 19,6 picogrammi per grammo di grasso, quando la soglia oltre la quale un prodotto viene ritirato è 5”.

Come se non bastasse pochi giorni fa sono giunti i risultati su un pollo ruspante allevato a Savarna e con un limite di 1,2 picogrammi per grammo di grasso, il volatile ha registrato un pesante 1,9: “Le nostri analisi, pagate privatamente con i soldi dei cittadini e delle associazioni hanno dato il 100% della contaminazione (3 casi su 3). Mentre i 25 campioni dell’Asl non registrano nemmeno un contaminato”, continua Vandini, “Crediamo che non compiano le analisi corrette, analizzando i mangimi  naturali  non del luogo”.

Al centro dell’emissione di sostanze cancerogene l’area tra Sant’Alberto, Savarna, Mezzana e Porto Corsini: un cerchio urbanizzato attorno al famigerato inceneritore Hera, situato sulla statale Romea che produrrebbe diossine provenienti dalla combustione in presenza di cloro. Anche se Arpa non ha mai rilevato particolari criticità e la multiutility ha bollato le analisi dei grillini come “prive di scientificità”.

La richiesta del M5S e delle associazioni ambientaliste e sanitarie sorte attorno all’esperimento che si sta facendo via via più concreto è quella dell’attuazione di un biomonitoraggio del latte materno per mappare le zone più inquinate nonché la ratifica della convenzione di Stoccolma sottoscritta nel 2001 ed entrata in vigore nel 2004 che prevedeva il divieto di produzione e d’immissione nell’ambiente di inquinanti tossici e persistenti come le diossine. Anche se attualmente sono 151 gli Stati che l’hanno sottoscritta e ratificata, ma l’Italia è l’unico tra i paesi europei ad averla sottoscritta nel 2001 ma a non averla ancora ratificata, ovvero tradotta in legge.

“Sono pessimista rispetto all’evoluzione in senso pratico del problema perché conosco chi amministra da 40 anni Ravenna. E non dimentichiamoci che è altamente probabile che ci saranno problemi respiratori, tumori e patologie cancerogene per le generazioni future”, chiosa Vandini, “visto che abbiamo registrato valori vicinissimi a quelli dell’Ilva di Taranto”.

Fonte.

La salute vien vivendo...