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25/01/2012

Sei stato liberalizzato

Si possono liberalizzare le licenze dei taxi o delle farmacie. Si possono liberalizzare gli orari degli esercizi commerciali. Si può liberalizzare la scelta dei fornitori di carburanti da parte dei gestori delle pompe di benzina e si possono vendere immobili e proprietà comuni. Ma ha senso liberalizzare i servizi più delicati ed essenziali, quelli che incidono profondamente sull'equilibrio instabile dove oscillano, in stato di perenne precarietà, i nostri pochi diritti? Non ci sono settori i quali, rappresentando intrinsecamente l'identità stessa del concetto di Stato, dovrebbero uscire dalle logiche di mercato ed essere esclusivo appannaggio della scienza che governa i rapporti tra i diritti individuali e collettivi, e che si fa garante del loro rispetto? E' giusto privatizzare le carceri? Si potrebbe mai pensare di liberalizzare le Forze dell'Ordine? Si potrebbe mai liberalizzare un intero potere dello Stato, che so: la magistratura? In fondo, secondo un certo pensiero, sono tutte voci di costo che meglio potrebbero essere gestite da un privato.
 E poi: perché "meglio"? Per quale motivo, se la gestione di una funzione pubblica costa "x", il suo affido a una società privata dovrebbe farla costare "x-n", considerato inoltre che per comprendere la reale entità del "taglio" è necessario sommare alla differenza tra il vecchio e il nuovo costo (n)  anche i guadagni del nuovo gestore?


  Nel migliore dei mondi possibili, questo risparmio deriva esclusivamente da una migliore efficienza gestionale. Ma allora non converrebbe ad uno Stato assumere direttamente i manager e incamerare i guadagni generati, destinandoli ad abbassare la pressione fiscale anziché perdere il controllo e regalare risorse al settore privato?
 Nella peggiore delle ipotesi, invece, i risparmi deriverebbero dalla derubricazione dei diritti umani a righe di bilancio su cui operare tagli selvaggi fino al raggiungimento della soglia minima di sopravvivenza, sotto la quale il prodotto deperisce. E' storia sempre attuale e recente, purtroppo: abbiamo parlato solo qualche giorno fa della casa di riposo che maltrattava i suoi ospiti anziani e malati, avendo usufruito di 200 mila euro di fondi pubblici, ma casi tristemente analoghi sono all'ordine del giorno. L'intervento del privato ha largamente dimostrato che quando anche gli stessi diritti umani dipendono dalla logica del massimo profitto, allora gli uomini possono facilmente diventare merce e finire per essere considerati con gli stessi criteri che i gestori degli allevamenti intensivi criminalmente adottano nei confronti dei loro capi di bestiame.

 Di questi tempi si cerca di far apparire il settore pubblico come il  male assoluto e quello privato come il toccasana. Eppure è sul concetto di bene pubblico che si è sviluppata, fiorendo, la nostra civiltà. Il neoliberismo fondava i suoi teoremi sullo sviluppo esponenziale conosciuto in epoche recenti dagli Stati Uniti, ma non ha mai tenuto in considerazione le diseguaglianze sociali che ha prodotto, con intere classi di persone private anche solo della possibilità di curarsi, così come non si è mai interessato delle ricadute etiche di un sistema che, tra i fattori dell'incremento del Pil,  annovera per esempio l'indotto economico derivante dall'espansione dell'industria bellica. E soprattutto: ha senso oggi, dopo che questo dogma delle liberalizzazioni portate all'estremo è sfociato in una catastrofe di dimensioni planetarie?

  Portando il ragionamento neoliberale alle sue estreme conseguenze (esercizio utile a comprenderne la natura), la privatizzazione di un intero Stato - limite verso cui tende la smania di assoggettare qualsiasi cosa all'interesse personale nel nome di benefici costosissimi in termini di libertà - tende allo stato di natura, quello nel quale il pesce grande mangia il pesce piccolo in una eterna catena governata esclusivamente dall'adattabilità e dal successo evolutivo delle singole specie. Più che un'evoluzione, diventa un'involuzione. E' come una bolla: se la gonfi troppo scoppia, e devi ricominciare daccapo.

 Eppure, in fondo, in una certa misura potrebbe anche essere già accaduto. Se le decisioni assunte nei Parlamenti nazionali, infatti, derivassero in qualche misura da quelle maturate nelle sedi dove si svolgono incontri privati tra le lobby internazionali e i politici più influenti, non sarebbe un po' come avere liberalizzato la gestione di interi popoli? Da un punto di vista strettamente logico, tra l'assegnare la gestione delle carceri al settore privato, con l'obbligo di avere una partecipazione delle fondazioni bancarie pari ad almeno il 20%, e l'affidare la gestione dello Stato a un privato cittadino, espressione di un'azionariato nel quale la partecipazione delle banche è perfino superiore - e di molto - al 20% (parlo dell'organizzazione privata che Mario Monti ha rappresentato fino a ieri: la Commissione Trilaterale) tutta questa differenza poi non si vede. Siamo forse già stati liberalizzati tutti, e non ce ne siamo neppure resi conto?

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