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24/01/2012

Battono in ritirata le lobby del copyright. Netwar ultimo atto?

«SOPA e PIPA minerebbero l'architettura fondamentale di Internet» ha detto il professor James Boyle della Duke University. Ed ha certamente ragione. Non a caso ieri Massimo Gaggi sul Corriere della Sera segnalava l'ironia dei quotidiani cinesi sulla realizzazione delle barriere censorie che l'approvazione di queste leggi comporterebbe. C'è poco da stare allegri a dirla tutta. Se per qualche (improbabile) motivo lo Stop Piracy Online Act ed il Protect IP Act andassero in porto, pur nelle loro versioni edulcorate rispetto a quelle inizialmente proposte alla Camera ed al Senato statunitensi, assisteremmo ad un progressivo stravolgimento di Internet per come fino ad oggi l'abbiamo conosciuta in Occidente.

L'identità di Internet – ormai dovremmo saperlo – è qualcosa di contingente e la trasformazione dei suoi connotati principali (come appunto l'architettura) è in grado di alterare le pratiche di comunicazione sociale che la attraversano.
E allora? Allora le battaglie contro SOPA e PIPA sono battaglie giustissime, sacrosante, da vincere assolutamente. Almeno in una prospettiva tattica. Ma per favore non raccontiamoci che si tratta di battaglie per la libertà di parola e tanto meno per mantenere quelle condizioni di apertura che hanno reso Internet la più grande agorà nella storia dell'umanità. Il rischio è di passare dalla padella alla brace senza nemmeno rendersene conto.
Jimmy Wales l'aveva detto: «Dobbiamo mandare un grande messaggio a Washington». E così è stato. 24 ore di shutdown, l'adesione di migliaia di siti (alcuni dei quali popolarissimi) ed il sostegno di molti firmatari delle leggi si è vaporizzato. Ma chi ha davvero gettato benzina sul fuoco del primo “sciopero del Web” non sono stati né Wikipedia, né le migliaia di blogger che pure hanno genuinamente aderito all'iniziativa, ma le grandi internet companies come Google, Facebook, Yahoo, Twitter ed Ebay. Senza la pressione esercitata delle grandi aziende dell'ICT c'è da dubitare che la riuscita del blackout avrebbe provocato ricadute altrettanto nette. Difficile però associare tali aziende a concetti come libertà di espressione o Open Internet. Non che i loro dirimpettai, le major della discografia e della cinematografia di Hollywood, presentino credenziali migliori – non si contano ormai più i tentativi, vuoi legislativi, vuoi repressivi, vuoi di carattere tecnologico, di imporre una qualche forma di controllo alla rete per perpetuare la loro rendita di posizione parassitaria – ma i giganti del web 2.0 che oggi affermano di essere per la rete aperta e per la libertà di parola sono i medesimi che già da tempo amministrano intere porzioni di Internet come autorità assolute in mondi chiusi.
Anche tralasciando pietosamente la presenza di Microsoft nella “coalizione dei volenterosi” schieratisi contro l'asse del male che minaccia la libertà di Internet, altri vistosi dettagli non possono non saltare all'occhio. Che dire per esempio dell'appoggio di Amazon alla lotta contro SOPA – giustamente considerata una legge in grado di mettere in pericolo le attività di whistleblowing – vista la posizione tenuta dalla compagnia di Jeff Bezos poco più di un anno fa in occasione dell'affondamento del network di Wikileaks in pieno Cablegate? Come è possibile considerare garanti dei diritti digitali Google o Facebook, compagnie che stanno costruendo veri e propri “walled garden”, ambienti a tenuta stagna separati dal resto della rete? Aziende i cui amministratori oltretutto praticano quotidianamente uno stillicidio di profili politicamente scomodi, o anche solo non attinenti alle loro volubili e capricciose policy.
«Metterti le penne nel culo» diceva Tyler Durdeen in Fight Club «non fa di te una gallina». E per quanto i giganti dell'ICT si sforzino di farsi passare per i difensori della novella biblioteca di Alessandria, la verità è un'altra. E cioè che Google e Facebook oggi non chiamano alle armi in difesa della libertà di parola ma di un preciso modello di business. Il loro. L'alternativa in gioco non è genericamente tra libertà e censura, ma tra modi, antitetici di intendere il mercato dell'informazione. Lo scontro è tra chi vorrebbe proteggere i prodotti intellettuali, secondo una logica obsoleta ed a caro prezzo, e chi li vorrebbe veder circolare liberamente per alimentare la redditizia cooptazione della creatività delle reti sociali. Uno scontro politico oltre che economico perché in un mondo di user-generated-content, dove il linguaggio è fatto dal remix di oggetti culturali preesistenti, decidere della legittimità di un contenuto significa avere il potere di intervenire sulle reti di comunicazione. Ma è un potere questo che Google e soci esercitano già a briglie sciolte nei loro ecosistemi informativi privati e di cui vogliono mantenere l'esclusività, senza doverlo spartire con nessuno, forti come sono della centralità dei loro servizi web. Non solo nella geografia di Internet. Ma anche dell'odierna comunicazione sociale, di cui essi sono a pieno titolo elementi costitutivi.
La battaglia contro le leggi firmate da Lamar S. Smith è stato l'ennesimo scontro di potere in una Netwar cominciata con la guerra contro Pirate Bay e declinata in diversi scenari locali (come la vicenda Google vs Vividown in Italia). La posta in palio è il mercato dell'informazione e le sue regole, oggi scritte da nuovi attori che hanno definitivamente spodestato quelli di un tempo. Non c'è più spazio per le vecchie cariatidi come Rupert Murdoch, il massimo campione e supporter d'eccezione di SOPA e PIPA. Quello che ha portato Myspace al fallimento quando era sulla cresta dell'onda ed incamerava miliardi. Quello scagliatosi contro la gratuità dei quotidiani on-line. Quello della scandalo “News of the world”. Quello che, nonostante le operazioni cosmetiche confezionate a botte di 140 caratteri, rimane l'incarnazione vivente della linea dura delle major dell'entartainement fatta di 10 anni di terrorismo mediatico, difesa di posizioni parassitarie e processi kafkiani a centinaia di utenti dei network P2P. Quello che, di fronte al fuggi fuggi di quanti hanno ritirato frettolosamente il loro appoggio alle famigerate leggi – pena una perdita di consenso in vista delle presidenziali di novembre – non ha potuto far altro che commentare con un laconico «Politicians all the same».

Già. Le elezioni presidenziali. Perché la battaglia contro SOPA e PIPA ne è stata una tappa importante, come dimostrato dalla minaccia di veto sventolata da Barack Obama qualora queste andassero in porto. Una posizione che non è un semplice favore ai big della Silicon Valley. Vero, i pezzi grossi dell'ICT son ormai radicati in pianta stabile a Washington (ed in particolare al tavolo del Dipartimento di Stato). Ma è altrettanto vero che storicamente i democratici hanno sempre avuto legami fortissimi con i gruppi di interesse del mondo dell'industria audiovisiva. Inoltre tanto S.Francisco che Los Angeles sono pezzi fondamentali del soft power USA. Ma le parole dello sconfitto John P. Feehery, lobbista della MPAA, lasciano però spazio a pochi dubbi. L'industria dei contenuti non sa come parlare alla gente mentre le internet companies riescono a mobilitare le persone in modi che gli studios non saprebbero nemmeno immaginare. Lo “sciopero di Internet” del 18 gennaio l'ha dimostrato chiaramente. Mai Obama avrebbe avallato una legge che rischiava di mettere i bastoni tra le ruote ad aziende tanto potenti ed in grado di influenzare così profondamente l'opinione pubblica mondiale. Mai si sarebbe preso la responsabilità di causare una deriva negativa nella vita in rete, facendo infuriare milioni di persone, molte delle quali elettori statunitensi. Le possibili ripercussioni sulla sua campagna elettorale si possono solo immaginare. Obama non ha fatto nessun piacere a Google&Co. Semplicemente, in questo momento, li teme.

Piegata una delle lobby più ricche dell'industria statunitense, intimidito “l'uomo più potente del mondo”, alle internet companies non restano da vincere che un pugno di battaglie per poter sacrificare quella stessa libertà di espressione che oggi sostengono di difendere. Mancano alla lista la causa intentata alla UE contro Google per abuso di posizione dominante e sopratutto il dissolvimento della Net Neutrality, pronta a lasciare il passo ad un nuovo grand design della rete, ricalcato sulle ragioni imposte dal mercato. Al varco ci attende un' Internet a doppia velocità, una per ricchi ed una per i poveri. Come dicevamo in apertura, l'architettura conta.

Mentre scriviamo giunge notizia del sequestro operato dall'FBI contro Megaupload e Megavideo, due tra i più visitati siti in tutto il mondo. Un'operazione repressiva dalle ricadute di portata planetaria che, indipendentemente da qualsiasi impulso sia partita, rafforzerà l'opposizione ai tanto discussi disegni di legge. In pochi minuti Anonymous ha affondato i siti di tutte le lobby dell'industria dell'entertainement statunitense, #megaupload è in trending topic su Twitter mentre su Facebook fioccano i gruppi che si propongono di salvare Megavideo. Vedremo poi se nei prossimi giorni Kim Schmitz, il fondatore dei siti in questione, verrà proclamato beato martire sacrificatosi per la libertà di parola (e certo per i congrui profitti derivati dall'aver abbracciato la causa).
Quella contro SOPA è stata una vittoria? Potrebbe esserlo. Se e solo se il 99% avrà la capacità di trasformare una battaglia contro l'oscurantismo in una battaglia contro il capitalismo digitale, immaginando modi di far entrare in sciopero permanente (come decidiamo noi, non come vuole Google) la nostra comunicazione nei confronti della governance globale dell'informazione.

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