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16/10/2011

Siria, il Vietnam del Medio Oriente.

Sauditi (e Usa) da una parte, iraniani dall'altra: Damasco sempre più in crisi.

In un primo momento si era parlato di sceneggiatura degna di Hollywood, ma la storia del complotto iraniano per colpire obiettivi negli Stati Uniti d'America si arricchisce ogni giorno di nuove dichiarazioni scottanti. L'ultima della serie proviene dalla diaspora iraniana all'estero.
A parlare è il Consiglio nazionale della Resistenza dell'Iran, network di gruppi anti regime, che ha nei Mujaheddin del Popolo la formazione di riferimento. Secondo Maryam Rajavi, moglie del leader storico e presidente del Consiglio, il complotto negli Usa rientra in ''una nuova fase di esportazione del terrorismo da parte del regime e rappresenta un'evidente dichiarazione di guerra contro la comunità internazionale. La fermezza è l'unica politica corretta verso questo regime. La politica dell'Occidente va completamente cambiata. Fin quando questo regime sarà al potere, non abbandonerà l'esportazione del terrorismo e del fondamentalismo''.
Nulla di nuovo: già i passato il Consiglio e i Mujaheddin del Popolo si erano espressi sulla certezza che il regime degli ayatollah fosse già in possesso della bomba atomica. Si sono sbagliati. Di certo hanno tutto l'interesse ad accusare il governo dell'Iran, tanto che il portavoce europeo del gruppo, Shahin Gobadi, ha dichiarato di essere certo - senza specificare la fonte - che l'ordine di ordire ed eseguire il complotto sia partito direttamente dall'ayatollah supremo Alì Khamenei.
Nulla pare dimostrato, tranne la fretta degli Usa. Prima il vicepresidente Joe Biden, poi il presidente Obama, hanno tenuto a ribadire che non è ''esclusa alcuna opzione, compresa quella militare''. Davvero un'aggressività inspiegabile, alla luce dei fatti accertati. I sauditi, almeno dal 2004, vedono nell'Iran il male assoluto. Questioni politiche, nel senso del dominio regionale, e religiose - sempre buone da strumentalizzare - rispetto all'internazionalismo sciita inaugurato dalla presidenza di Mahmoud Ahmadinejad. La Siria, in questo gioco, è nel mezzo. La Siria, invece, accusa ''bande di terroristi'' di voler portare il caos nel Paese e di aver ucciso più di mille uomini delle forze di sicurezza.
Resta un dato di fatto: quello che accade in Siria, sul modello della Libia, ha poco in comune con quanto è accaduto in Egitto e Tunisia. Di sicuro perché le forze armate, in gran parte, son rimaste fedeli ad Assad, ma anche per altre dinamiche. Sembra quasi che la Siria sia ostaggio di una forza centrifuga, all'interno, ma anche di un moto dall'esterno, dove l'Iran e l'Arabia Saudita appoggiano i loro gruppi di riferimento per rovesciare - o tenere in sella - Assad. La sensazione è che se Assad mollasse l'Iran, spezzando la catena 'sciita' che unisce Teheran ad Hezbollah in Libano, la situazione tornerebbe sotto controllo. Sempre che l'Iran, come ha fatto per mesi in Yemen e per anni in Iraq, non sostenesse l'insurrezione sciita.
L'Iran, nella visione di Ahmadinejad, deve diventare il faro della rivincita sciita. L'ayatollah supremo Khamenei, invece, è più pragmatico, anche sulla difesa di Assad, non a caso tra i due la luna di miele sembra finita da tempo. Il coinvolgimento iraniano in affari di paesi come il Bahrein e lo Yemen, dove gli sciiti sono una minoranza oppressa, non è affatto un segreto. Ma un complotto antisaudita, in territorio Usa, con manovalanza messicana, sembra davvero uno scenario impensabile. Ma la reazione Usa tradisce la volontà di fare pressione in un modo più pesante. Per appoggiare i sauditi? Per costringere Khamenei a saldare i conti con Ahmadinejad? Per distogliere l'attenzione dalla crisi finanziaria? Chi può dirlo, ma la sensazione è che questa storia non promette nulla di buono.

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