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13/09/2011

La Cina è sempre più vicina.

Ricordo che lo ripeteva frequentemente Enrico Bertolino a Glob - L'osceno del villaggio in oda su Rai3 qualche stagione fa.
Se già ai tempi suonava poco come battuta e molto più come infausto presagio, quella di Bertolino è divenuta un'ipotesi da sondare politicamente, come sta facendo in questi giorni l'ex superministro (viste le beghe milanesi) dell'economia Tremonti, ma andiamo con ordine:

Pechino potrebbe comprare titoli di Stato per puntare alle imprese strategiche. 
Ma forse non basterebbe lo stesso.
"No" per la borsa, "ni" per l'economia reale. Se i mercati non credono che la Cina potrebbe salvare l'Italia dal default, si ipotizza tuttavia che l'appetibilità di alcuni nostri asset strategici potrebbe indurre il Dragone ad aprire i cordoni della borsa. È stato il Financial Times a dare la notizia di un primo abboccamento tra il ministro dell'Economia, Tremonti - l'uomo che in passato aveva lanciato il grido d'allarme contro lo "spauracchio Cina" - e il presidente della China Investment Corporation (Cic), Lou Jiwei. La Cic, ricordiamolo, è il principale fondo sovrano cinese. Nata nel 2007 e foraggiata con l'immensa liquidità cinese dovuta al surplus commerciale, ha attualmente un patrimonio di oltre 400 miliardi di dollari. È il portafoglio del Dragone e la longa manus di Pechino nell'acquisto di partecipazioni all'estero.

Bufala o no?
Cominciamo dai mercati. Niccolò Mancini, trader di Piazza Affari, non ha dubbi: "La reazione alla notizia che la Cina si comprerebbe parte del nostro debito è durata un quarto d'ora. Siamo partiti in positivo e alle 9.15 eravamo già sotto. È stata valutata una bufala anche perché si pensa che, se i cinesi volessero intervenire, prima che sul debito pubblico lo farebbero su aziende e banche, visto che alcune ormai vengono via a prezzo di saldo. L'altro segnale è stato lo spread, che ha superato i 400 punti attorno alle 10.00, il che significa che, a parità di scadenza, paghiamo gli interessi dei titoli di Stato il 4 per cento in più della Germania."
Paolo Manasse, docente di macroeconomia a Bologna e alla Bocconi di Milano, ritiene invece plausibile un interesse di Pechino di carattere sia strategico-geopolitico sia finanziario: "Investire al tasso di interesse che hanno i nostri titoli, se si scommette sulla solvibilità dello Stato, è un buon affare. Ma potrebbe soprattutto essere un investimento strategico, perché getterebbe le basi per un ingresso sia nelle banche sia nelle industrie italiane, con l'acquisto di partecipazioni azionarie. Anche se ci fossero problemi di solvibilità, la soluzione già attuata con i Paesi dell'America Latina e con la Grecia potrebbero essere i debt-for-equity-swap [scambio tra titoli di tipo diverso che consente la ristrutturazione del debito, ndr] tra titoli di Stato e azioni di imprese partecipate dallo Stato. Convertire debito pubblico in debito privato con partecipazione statale".
Quali sono le imprese italiane che potrebbero interessare alla Cina?
"Oltre a Eni ed Enel, di cui parlava il Financial Times, ci sarebbe Alitalia e poi le fondazioni bancarie partecipate dallo Stato. La Cina è soprattutto interessata all'energia, credo che una partecipazione di rilievo nell'Eni potrebbe essere appetibile". In tal modo - aggiungiamo - Pechino tornerebbe ad avere un certo peso in Libia senza colpo ferire. E tra le imprese possedute in tutto o in parte dallo Stato, non possiamo dimenticare le Ferrovie dello Stato - il governo cinese ha un debole per i treni - e la strategica (militarmente parlando) Finmeccanica.
Tornando ai mercati, cerchiamo di capire perché non restituisce fiducia l'ipotesi che l'economia che dispone di più liquidità al mondo metta una pezza alla voragine del nostro debito pubblico.
"Da oltre due mesi è chiaro che i mercati prendono di mira Berlusconi - sostiene Mancini - nonostante la stesura di quattro finanziarie. La sfiducia dei mercati è chiara, il problema è che in qualsiasi parte del mondo un governo ne avrebbe tratto le conseguenze; da noi, con una maggioranza a libro paga del premier, tirano avanti".
Cinesi o non cinesi, secondo l'operatore di Borsa il problema è quindi politico: "Le aste dei buoni del tesoro lanciano un altro segnale. Ieri il tasso dei Bot a un anno era del 4,15 per cento, oggi quello dei Btp a 5 anni è di 5,60. La situazione è insostenibile per un Paese con il nostro debito pubblico - 1900 miliardi - perché quei tassi d'interesse significano che la manovra l'hai già bruciata prima ancora di farla. Sono convinto invece che eventuali dimissioni di Berlusconi potrebbero tranquillamente valere 150 punti sullo spread e il 15 per cento sulla Borsa".

Fonte.

Il "bello" di questa situazione è trovarsi tra l'incudine di un mercato mai sazio nei confronti di un Paese che per sopravvivere cannibalizza se stesso, e il martello di una classe dirigente sfiduciata dagli ambienti finanziari occidentali (quelli che "comandano") probabilmente perché a tempo debito, si fece intima collaboratrice dell'altra sponda (Putin, Gheddafi e via discorrendo).
Nel mezzo, la popolazione disinformata e disinteressata, incapace di rendersi conto d'essere nuovamente vittima del consueto doppiogiochismo della politica italiana (quello che ci ha portato a saltare il fosso nelle due guerre mondiali e nell'attuale conflitto libico) ma soprattutto miope nei confronti di un futuro in cui saremo privati d'ogni sovranità sui beni del nostro paese, sempre ammesso che il vento non cambi ovviamente.

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