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23/05/2011

Futuro, questo sconosciuto.


Il lavoro rende liberi.

Questa massima, infaustamente usata dai nazisti come messaggio di "benvenuto" per tutti i disgraziati che soggiornarono ad Auschwitz Birkenau, è anche il cardine su cui si fonda ogni organizzazione sociale, da sempre. Se non sì lavora, non sì usufruisce di un reddito. Senza reddito è praticamente impossibile farsi una vita propria.
Banalità? Quando il sistema funziona sì, quando lo stesso sistema s'inceppa e va progressivamente in pezzi, no. La disgregazione sempre più spinta dell'economia e della società che ci sta dietro è il dato più facilmente riscontrabile in questi tempi. Se il declassamento della finanza greca e i timori per quella italiana, generalmente dicono poco all'uomo della strada (varrebbe comunque la pena domandarsi perché l'affidabilità di un ente pubblico debba essere sancita da un soggetto privato -ndr) il disfacimento del tessuto produttivo dovrebbe (anche se nella realtà dei fatti riscontro spesso l'esatto opposto -ndr) destare decisamente più allarme, soprattutto quando rischia d'impattare in maniera devastante sulla realtà sociale di turno, come potrebbe accadere nell'immediato a Genova.
Il capoluogo ligure, sconta in questi giorni decenni di scelte economiche scellerate, che hanno trasformato il settore produttivo della città in una mastodontica struttura assistenziale, in cui lo sviluppo è sempre stato subordinato alla logica clientelare del potere politico e sindacale, che è ingrassato distribuendo redditi (finché ce n'era -ndr) a destra e manca.
La pacchia è definitivamente finita con gli anni '90, periodo in cui anche Genova sperimenta sulla propria pelle la ricetta della privatizzazione (gestita in buona parte da Prodi), "necessaria" per allineare il sistema Paese al libero mercato e all'UE, in realtà finalizzata allo spolpamento delle eccellenze che l'Italia fu comunque in grado di coltivare negli anni delle vacche grasse.
Le logiche del mercato, al posto di divenire occasione di rilancio per aziende che andavano male ma possedevano comunque un patrimonio industriale spendibile, si tramutarono nella pietra tombale della "grande industria" nazionale e di conseguenza genovese, che è passata per una serie infinita di fusioni, vendite e riassetti costantemente gestiti in quel di Roma dalla teste che hanno rilevato la direzione dei gruppi una volta appartenenti all'IRI, che costituiscono tuttora l'ossatura occupazionale cittadina (fatta eccezione per il mastodontico terziario pubblico) a maggior ragione se sì considera l'indotto gravitante attorno ad Ansaldo Energia, Ansaldo STS, Elsag-Datamat, Selex Communications, Fincantieri, la crème dell'industria locale.
Gli ultimi tre nomi citati sono i protagonisti delle più recenti vicende economiche cittadine.
Dopo anni d'andamento non incoraggiante nei rispettivi settori, Elsag e Selex sì sono fuse in un'entità unica. L'obiettivo ufficiale di Finmeccanica è quello di armonizzare l'offerta ICT in seno al gruppo, decisione che sì potrebbe condividere se la dirigenza della neo azienda non avesse deciso di battezzare un piano industriale ancora inesistente con la cassa integrazione per 650 dipendenti (190 genovesi).
Forte di questo riassetto strategico, Genova patisce in queste ore anche il ridimensionamento di Fincantieri, intenzionata a smantellare lo stabilimento di Sestri Ponente, dove i lavoratori sono già sul piede di guerra.
La situazione, per forza di cose, ha già chiamato in causa la politica nazionale e locale, da cui personalmente mi attendo poco e nulla, soprattutto a fronte dei recenti casi FIAT.

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