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20/05/2011

From row power to soft power.

Sempre più spesso mi capita di leggere opinioni secondo cui, i libri di storia (scritti da chi?) dedicheranno ampio spazio alla primavera araba e probabilmente faranno altrettanto con la figura di Barack Obama che, con sempre maggiore decisione, sta assurgendo a più grande piazzista del globo.
Se l'Italia può fregiarsi d'essere la natia patria del più abile venditore di fumo d'Europa (Berlusconi), ci sta che il primo inquilino della Casa Bianca voglia aggiudicarsi la coppa del mondo nella medesima disciplina. Ovviamente, non è questione di solo orgoglio nazionale, ma di squisita e becera politica. Con l'elezione di Obama è indubbio che il lobbismo abbia fatto centro come mai verificatosi nella storia americana, quanto meno del secondo dopoguerra.
L'hawaiano, infatti, è sintesi perfetta di quel carisma tanto accecante nelle rappresentazioni televisive, quanto inconsistente nelle azioni concrete. Esattamente ciò che serviva per traghettare l'intero blocco occidentale oltre la politica del pugno duro di Bush Jr. Il row power del texano aveva ormai stancato. La gente iniziava a scoglionarsi di finanziare con sangue e tasse l'infinita guerra al terrore, e non aveva più tanta simpatia per quel liberismo che negli anni '80 infiammò gli animi, ma alla soglia del nuovo millennio prese a scricchiolare sotto il peso della speculazione finanziaria poi trasformatasi in crisi economica di cui, fino ad ora, nessun analista "ufficiale" ha potuto (voluto) stimare le ripercussioni.
Questa situazione presentava due soli possibili sbocchi:
  • La rivoluzione del sistema economico sociale che ha dominato fino ad oggi
  • Il restauro dell'odierno sistema al fine di renderlo più digeribile alle masse che iniziavano a dare segnali d'insofferenza
Ha ovviamente prevalso la seconda linea. Era, del resto, impensabile aspettarsi che i burattinai del mondo mollassero notte tempo i propri interessi.
Le tempistiche dell'azione sono state studiate con precisione cronometrica. Allo scadere del mandato di Bush Jr. è casualmente corrisposto l'inizio della crisi finanziaria, che nel corso della campagna presidenziale del 2008 è progressivamente divenuta crisi dell'economia reale, un ottimo argomento su cui i democratici hanno potuto tessere i propri slogan, in maniera per altro piuttosto banale, merito di un'opinione pubblica abilmente manipolata dai media (tutti privati) e quindi incapace di riconoscere che il tracollo USA ha radici ben più lontane dei due mandati del cespuglio texano, e coinvolge pienamente il decennio governato dal democratico Bill Clinton.
Azzeccati i tempi e il copione, mancava solo il protagonista dell'ennesimo film scritto da altri, e quale miglior teatrante del cambiamento sì poteva trovare in un paese di bianchi, anglosassoni e protestanti, se non un volto nero? Detto fatto, il buon Barack, hawaiano di nascita (quindi formalmente made in USA) ma con radici nell'Africa Nera, viene incoronato dalle primarie democratiche alla guida del partito e contrapposto ad una compagine repubblicana appositamente scelta per essere impresentabile (il duo McCain – Palin), stravince le presidenziali a furor di un popolo incantato dal suo "Yes we can!", ritornello perfetto con cui martellare le menti di una popolazione stanca e  desiderosa di un cambio di marcia.
Di Obama, anche dalle nostre parti, s'è detto di tutto e di più. Sull'esaltazione della sua politica dal basso finanziata dai cittadini (ma molto più dalle lobby) ci hanno marciato in molti, soprattutto a sinistra (vedi PD, SEL ecc.) e tra gli alternativi (Beppe Grillo). Su ogni organo d'informazione non manca mai l'articolo che esalta l'uscita del giorno del presidente americano e parimenti ne ridimensiona le sconfitte. La strategia comunicativa messa in atto a tale scopo è la canonica mitizzazione del singolo discorso cui fa immediato seguito il disinteresse circa i reali cambiamenti avvenuti a seguito del proclama di turno.
E' il caso del recente cambio di linea politica USA in Medio Oriente che sancisce a chiare lettere il nuovo passo che Obama intende imporre all'imperialismo americano. Non più, o meglio non solo guerre di occupazione, ma anche e soprattutto investimenti per lo sviluppo e la speculazione in Medio Oriente. In sostanza, Wall Street dovrà farsi carico di vincere la dove il fucile s'è dimostrato fallimentare o non sufficiente. A dispetto di quanto sostenuto da Obama, infatti, il disimpegno in Iraq  è il risultato di una sconfitta politico-militare seconda solo al disastro vietnamita, mentre la vittoria sui talebani e al-qaeda sono due sonore balle perché in Afghanistan la NATO controlla esclusivamente le aree metropolitane del Paese, mentre la reale esistenza della organizzazione terroristica facente capo a Bin Laden ha avuto un riscontro prevalentemente mediatico.
In questa chiave va, quindi, interpretata la simpatia americana per le rivolte più o meno laiche in atto nel mondo arabo, e sempre in quest'ottica sì colloca l'affermazione di Obama secondo cui Israele dovrebbe tornare entro i confini del 1967 (ovviamente a condizioni tutte da definire).
Probabilmente, Obama e chi lo manovra è convinto che il profumo dei verdoni americani sarà in grado di placare gli animi di tutti gli esagitati che s'ammazzano da decenni in una zona del mondo che, se conquistata economicamente, potrebbe garantire altri 50 anni di monopolio internazionale allo Zio Sam, oggi più pressato di un tempo perché l'economia prossima al soffocamento, oltre alle storture interne, deve fare i conti anche con la Cina che ha tratto enormi benefici dal progressivo impoverimento produttivo che ha eroso la società occidentale. E', quindi, imperativo per gli USA ammaliare con il proprio soft power i mercati medio orientale ed africano, prima che vi esondi l'abbondantissimo capitale cinese (e russo), che potrebbe chiudere definitivamente il capitolo del dominio unico a stelle e strisce.

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